Regia di Celine Song vedi scheda film
Fin dal titolo originale, “Materialists” esplicita smaccatamente i propri intenti, gettando la maschera ancor prima di indossarla. In questo, Celine Song conferma di avere un’univoca ossessione tematica più che un ventaglio di idee fiorenti dallo stesso campo: l’amore come sentimento irrazionale, non riducibile a formule o calcoli di sorta.
Se già in “Past Lives” questo approccio semplicistico non risultava esattamente originale e, soprattutto, ben maneggiato, l’imperdonabile peccato del film consiste nel dipanarsi sulla base di un mero rimescolamento di tali – già stantie – astrazioni, risucchiando l’ultima - minima - possibilità di freschezza da un oggetto cinematografico destinato ad una rapida decomposizione.
L’assunto narrativo di partenza - un’agenzia di dating in concorrenza con le moderne piattaforme digitali - testimonia la totale mancanza di uno sguardo consapevole sul presente, essendo del tutto incapace di giustificare la sussistenza di un (costoso) servizio di successo che si pone, a conti fatti, esattamente nei medesimi termini della sconfinata marea di app all’uopo preesistenti.
Collocare la storia in altra epoca sarebbe risultato più che sufficiente a minimizzare gli effetti collaterali, senza scomodare arditi slanci speculativi (non sia mai) che prevedano la lettura dei rapporti sociali della società odierna, nella quale anche i sentimenti sono schermati dalla luce blu dello smartphone.
Ogni successivo snodo narrativo è estremamente telefonato e gli interpreti, anziché tentare di compensare le lacune di scrittura, contribuiscono ad amplificarne la risonanza, dando vita a personaggi plastici, senz’anima. Dakota Johnson si limita ad un’interpretazione di algida staticità, mentre Pedro Pascal e Chris Evans si contendono lo scettro del grottesco in un carosello di sorrisini e aggrottamenti, con il primo a spuntarla di misura.
Fermo nelle proprie convinzioni, il film vede sfumare attorno a sè infinite possibilità di approfondimento dei caratteri e dei relativi status sociali, rifuggendo dal racconto del gap di genere così come da quello dell’incontro-scontro tra classi al di là di futili didascalismi.
Il messaggio, che passa in sovraimpressione per l’intera durata, evidenzia la vacuità dell’imperante materialismo che cinge la vita moderna, facendo perdere di vista l’essenza dell’amore, la cui purezza non è minimamente determinata da condizioni fisiche, sociali o economiche. Fino a questo punto, l’unico appunto che si potrebbe registrare ad un condivisibile pensiero è quello di una certa ridondanza e faciloneria; sciaguratamente, a rendere del tutto paradossale l’intera pellicola, è l’evidenza che la protagonista sia tutto fuorché l’archetipo di donna dai tratti estetici convenzionali. Il retorico panegirico finale del personaggio di Evans orientato in questa direzione, quindi, acquisisce una carica di ipocrisia smisurata, aggravata dalla totale assenza di flashback in cui si possano minimamente percepire la nascita e lo sviluppo di irrazionali moti amorosi nei confronti del ruolo femminile che evidentemente ha dalla sua il solo aspetto fisico.
Anche dal punto di vista visivo, la pellicola non si discosta dalla mediocrità drammaturgica, con sterminate inquadrature a camera fissa che riprendono artefatti dialoghi unicamente indirizzati verso il proprio scadente obiettivo, dimenticandosi la fondamentale importanza di un corollario di caratterizzazione di contorno che, seppur effimero nell’economia della storia, possa garantire spessore e credibilità ad un universo distante anni luce dall’empatia dello spettatore.
Un’opera che fa dell’amore il proprio fulcro non può permettersi di essere integralmente privo della percezione dello stesso nei gesti, negli sguardi, né tantomeno nello spazio filmico. Quello di Celine Song è un cinema di piaggeria, dalle sofisticate ambizioni che si risolvono in banale superficialità, ergendolo a degno rappresentante di tutto ciò che vorrebbe combattere.
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