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Trama

Il film Renoir ci porta nella periferia di Tokyo del 1987. L’undicenne Fuki osserva silenziosa il mondo intorno a sé mentre il padre, Keiji, combatte una malattia terminale. La madre, Utako, cerca disperatamente di tenere tutto insieme, barcamenandosi tra un lavoro a tempo pieno e l’assistenza a un marito sempre più assente, nel corpo e nella mente. L’aria in casa è tesa, satura di rabbia trattenuta e amore non espresso.

Fuki, abbandonata spesso a se stessa, riversa la propria sensibilità in un universo di fantasie. Affascinata dalla telepatia, inizia a immaginare di poter comunicare senza parole, di poter colmare quei vuoti che né la madre né il padre sembrano in grado di affrontare. Non ha gli strumenti per interpretare il dolore adulto, ma lo sente chiaramente, come una musica che non capisce ma che le riempie le orecchie.

Keiji è presente e lontano al tempo stesso, prigioniero del proprio corpo e incapace di trovare un linguaggio per condividere il peso della morte imminente. Utako, pur animata da un senso profondo di responsabilità, fatica a gestire le emozioni, al punto da diventare a volte dura, distante, chiusa. In questo nucleo familiare pieno di crepe, Fuki si ritaglia uno spazio tutto suo, fatto di immagini, visioni, frammenti di tenerezza. A un certo punto, chiederà al padre di comprarle una riproduzione del dipinto Ritratto del figlio Pierre di Pierre-Auguste Renoir: un gesto che diventa il simbolo del loro legame, e forse l’unico vero scambio d’affetto tra loro.

Lontano dai toni drammatici e gridati, il film Renoir racconta la vita intima e malinconica di una famiglia sull’orlo del collasso, vista attraverso gli occhi di una bambina che ancora crede nella possibilità di una connessione autentica, anche solo immaginata.

Con il film Renoir, in concorso a Cannes 2025, la regista Chie Hayakawa firma un’opera profondamente personale. L’idea nasce dal suo stesso vissuto: essere una bambina che osservava il padre morire di cancro senza riuscire a mostrare empatia, travolta da pensieri colpevoli, fantasticherie egoiste, distrazioni infantili. Una condizione di distanza emotiva che ha tormentato la regista per anni, alimentando un senso di colpa poi trasformato in consapevolezza: forse non è possibile comprendere davvero il dolore altrui, nemmeno quello dei genitori. Eppure, anche nell’assenza di comprensione, può esistere l’amore.

Il film Renoir è anche un confronto generazionale. Hayakawa guarda oggi a quei momenti da adulta e madre di due figli, riuscendo a intravedere, con compassione, la solitudine dei suoi genitori, la frustrazione della madre, la paura del padre. La narrazione si fa quindi doppia: da un lato lo sguardo della bambina, pieno di suggestioni, di immaginazione, di paure; dall’altro, la coscienza adulta che osserva e cerca di comprendere.

La scelta di ambientare la storia nel 1987 non è solo biografica. Quel periodo, nel pieno del boom economico giapponese, segnava anche l’esplosione del consumismo e il rafforzarsi del modello familiare nucleare, spesso chiuso, isolato, poco comunicativo. In questo contesto sociale saturo di benessere materiale e carenze affettive, Renoir diventa anche una riflessione più ampia sulla disconnessione tra individui.

Infine, il titolo. L’omaggio a Renoir nasce da un ricordo infantile: quel quadro riprodotto, regalato da un padre morente alla figlia, diventa un oggetto totemico, una piccola icona di amore silenzioso, idealizzato, non del tutto capito. Nella sua semplicità, quella copia d’arte incarna tutto ciò che Fuki cerca: bellezza, attenzione, presenza.

 

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