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The Ugly Stepsister

Regia di Emilie Blichfeldt vedi scheda film

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La recensione su The Ugly Stepsister

di Letiv88
7 stelle

Una fiaba nera sulla crudeltà della bellezza, imperfetta ma sincera e profondamente umana.

Venduto come shock-movie da stomaco forte, The Ugly Stepsister (2025) è in realtà un dramma sociale travestito da fiaba malata. Il trailer prometteva sangue e body horror, ma il film gioca su un terreno diverso: quello della denuncia, del corpo usato come campo di battaglia e del desiderio disperato di essere visti.
Film di produzione norvegese, diretto da Emilie Blichfeldt alla sua opera prima, riscrive Cenerentola dal punto di vista della sorellastra e ne tira fuori un racconto crudele, viscerale e sorprendentemente umano. Niente fate, niente magie, niente lieto fine da copione. Solo ossessione, dolore e una bellezza che diventa prigione. Un film imperfetto ma coraggioso, più malinconico che spaventoso, che ti resta addosso per come ti costringe a guardare ciò che solitamente si nasconde dietro il trucco.

Elvira (Lea Myren) vive con la madre Rebekka (Ane Dahl Torp) e la sorella minore Alma (Flo Fagerli). La madre, donna dura e calcolatrice, decide di sposare un uomo ricco per salvare la famiglia dal fallimento. Ma il marito muore subito, lasciando Rebekka e le figlie a convivere con Agnes (Thea Sofie Loch Næss), la bellissima figlia dell’uomo.
Da quel momento il clima diventa velenoso: Elvira, considerata la “brutta”, viene schiacciata dal confronto con la nuova sorellastra. La madre la spinge a cambiare, a diventare perfetta per conquistare il principe Julian (Isac Calmroth), un uomo più viscido che nobile. Inizia così un percorso di trasformazione fatto di diete estreme, interventi chirurgici e torture fisiche in nome della bellezza. La scena in cui le viene fatto ingerire un parassita per perdere peso riassume tutta la violenza del sogno che la madre le impone.
Nel frattempo Agnes si rivela tutt’altro che innocente: spregiudicata, opportunista, pronta a rinunciare all’amore sincero per inseguire il lusso e la posizione. L’unica figura davvero pura resta Alma, la sorellina che osserva tutto da fuori, testimone del crollo emotivo della famiglia.
Il finale lo conosciamo, ma Blichfeldt lo piega con intelligenza, lasciando un gesto minimo di solidarietà, una minuscola scintilla di umanità nel cuore dell’inferno.

Emilie Blichfeldt gira con uno sguardo preciso e gelido. Costruisce un mondo fiabesco solo in apparenza: sale da ballo impeccabili, vestiti rigidi, luci da pittura a olio… ma appena si avvicina al corpo di Elvira, tutto si incrina. I primi piani sono come lame invisibili: palpebre anestetizzate e poi cucite con ciglia finte, naso fratturato e stretto in un apparecchio, pelle tirata e bende che diventano gabbie. In certi momenti la regia la mostra quasi cieca, prigioniera del suo stesso corpo, e lì capisci quanto dolore c’è dietro l’idea di perfezione.

Le visioni oniriche si alternano al realismo con taglio secco: la vedi nei sogni, bionda e radiosa, poi la realtà la riporta giù senza pietà. Quando arriva il gore, arriva con ironia nera, mai con compiacimento: Blichfeldt non cerca lo shock, ma il disagio giusto per farti pensare. L’estetica resta “bella e cattiva”: la fiaba luccica, ma graffia, e ogni ferita racconta più di cento parole.

La sceneggiatura, firmata dalla stessa Blichfeldt, ribalta la fiaba senza prediche né moralismi. Tutto ruota intorno a Elvira, la sorellastra che qui diventa la vera protagonista: fragile, innamorata, disposta a tutto pur di essere accettata. Il dolore fisico che attraversa è lo specchio di una società che non perdona chi non rientra nello stampo. Agnes rappresenta l’altra faccia della medaglia: la bellezza che apre le porte ma chiude il cuore. In mezzo, una madre che confonde l’amore con l’ambizione e un Principe che più che desiderio incarna un premio sociale da conquistare.

La scrittura lavora di sottrazione, con dialoghi brevi e ritmo costante, alternando momenti grotteschi e lampi di disperazione reale. Quando Elvira si guarda allo specchio dopo l’operazione, non serve una parola: basta la sua espressione per capire che ha perso se stessa. Le scene soft-porn, comprese quelle con membri maschili in piena vista, stonano per tono e misura. Non sono scioccanti, ma inutili: non aggiungono nulla al racconto, spezzano la tensione e sembrano inserite più per provocare che per coerenza narrativa. Un inciampo di gusto in un film che, per il resto, sa esattamente dove colpire. La fiaba si spezza, il mito della bellezza crolla e il messaggio arriva chiaro: la perfezione è una prigione che ti divora mentre cerchi di piacere agli altri.

Lea Myren regge il film sulle spalle. La sua Elvira è un corpo che chiede pietà e insieme una mente che lotta: la senti vera, ferita, ma mai vittima passiva. Thea Sofie Loch Næss costruisce un’Agnes magnetica e contraddittoria: la bellezza che tutti invidiano ma che non rende felici.

Ane Dahl Torp è perfetta nel ruolo della madre: fredda, logica, incapace di amare, simbolo di un sistema che trasforma le figlie in prodotti. Isac Calmroth dà al principe la vuotezza che serve: un uomo che crede di avere potere solo perché la società glielo consegna.
Flo Fagerli, nei panni di Alma, è l’unica presenza limpida: rappresenta la speranza, la possibilità di spezzare il ciclo, e regala al film un raro momento di umanità.

Il film riprende la fiaba nella sua forma più oscura, quella di Cenerentola dei Fratelli Grimm, dove le sorellastre, pur di calzare la famosa scarpetta, arrivavano a tagliarsi l’alluce o il tallone seguendo i consigli della madre. Il sangue riempiva la scarpa e solo due colombe avvisavano il principe dell’inganno. Blichfeldt trasforma quell’immagine in chiave contemporanea: non più una mutilazione per entrare in una scarpa, ma per adattarsi a un ideale di bellezza impossibile. È la stessa ferocia, solo spostata dal piede al corpo intero.

Tutto il reparto tecnico segue questa logica: effetti pratici al posto del digitale, trucco prostetico reale e sangue “vero” quanto basta per far sentire il dolore sulla pelle. Le scenografie e i costumi mostrano il contrasto tra sogno e decomposizione: abiti fiabeschi ma consumati, cuciture a vista, colori smorti. Sotto la seta c’è sempre la carne.
La colonna sonora firmata da Vilde Tuv e John Erik Kaada alterna sonorità da synth anni ’80 a toni più fiabeschi, creando un contrasto curioso: una musica apparentemente dolce e nostalgica che accompagna scene di dolore e deformazione, amplificando l’inquietudine invece di attenuarla.
Presentato al Sundance nella sezione Midnight, il film ha diviso: per alcuni è eccessivo, per altri necessario. Di certo, non lascia indifferenti.

The Ugly Stepsister non è il pugno allo stomaco promesso dal marketing, ma un colpo lento e profondo. Più dramma che horror, più denuncia che spavento. Funziona quando resta aderente alla sua idea: mettere il corpo al centro e mostrarne il prezzo sociale senza sconti. Funziona perché ti fa provare empatia per la sorellastra, e perché ribalta la favola pezzo per pezzo, fino a lasciarti con addosso la tristezza di chi ha capito troppo tardi il prezzo del sogno che inseguiva.

Perde qualche punto nei passaggi più forzati e nelle scelte ammiccanti, ma resta un film visivamente potente, recitato con convinzione e sostenuto da una visione chiara. E nel finale, un barlume d’umanità rompe per un attimo la freddezza del racconto.

The Ugly Stepsister (2025): Trailer ufficiale italiano

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