Regia di Paolo Strippoli vedi scheda film
In Italia l’horror si era arenato ormai da decenni, bloccato sui successi degli anni ’70 e ’80 e da un’estetica che, da quegli anni, non si è mai più evoluta, cristallizzandosi su un passato nostalgico, di successo, certo, ma ormai effimero.
Per l’horror in Italia il tempo si era come fermato.
Colpa di produttori troppo prudenti, di distributori poco lungimiranti e, soprattutto, da un pubblico (e critica) troppo “snob” e “intellettuale” per apprezzare davvero il genere ma, soprattutto, si era limitato, occasionalmente, a “interagire” con il giallo e il thriller mentre nel resto del mondo, invece, il genere cresceva, si evolveva diventando terreno fertile per raccontare le nuove tensioni sociali, i traumi collettivi e/o generazionali o riflessioni esistenziali rinunciando (in parte) al solo sangue e all'effetto speciale per guardare invece più in profondità, nell’animo umano e nelle sue cicatrici, nel quale alberga il "vero" orrore.
In Italia il ritorno all’horror è iniziato già qualche anno fa quando un piccolo numero di registi ha ricominciato per davvero a fare cinema de paura e qualche (stolto? Disperato?) produttore ha provato a dar loro fiducia tra esperimenti insufficienti, altri promettenti e qualcuno anche piuttosto buono.
La valle dei sorrisi è, pur con qualche incertezza, tra questi ultimi, non un horror completamente riuscito ma qualcosa comunque di inaspettato, originale. Forse addirittura necessario.
Prodotto da Fandango, Vision Distribution e Nightswim, e presentato fuori concorso come “film di mezzanotte” alla Mostra di Venezia 2025, la nuova pellicola di Paolo Strippoli si iscrive nella nobile tradizione del cosiddetto “folk horror” alla The Wicker Man ma declinata, ovviamente, in chiave italiana (o padana?), continuando un percorso iniziato già a suo tempo da Pupi Avati e Lamberto Bava.
Il film è ambientato in una cittadina fittizia del Nord, un luogo così perfetto e tranquillo da sembrare fuori dal tempo, irreale. Tutti sono felici, si sorridono, si abbracciano, vivono tra loro in completa armonia. O così sembrerebbe.
L’orrore, qui, è presente già nel paesaggio, nella comunità chiusa e ossessiva, nel culto (pagano?) religioso ma soprattutto nelle persone perché sono loro i veri mostri e se Strippoli si appoggia a diversi topos narrativi del genere (l’estraneo che si ritrova all’interno di una comunità endogamica con cui entra in conflitto, il dipanarsi di un oscuro “mistero” proveniente dal passato, il confronto, inevitabilmente rovinoso, tra mondo reale e soprannaturale) per una struttura piuttosto classica ma anche moderna e un taglio internazionale (ma non la semplice imitazione di un Dario Argento o di un Lucio Fulci) che lo spinge a una metaforica riflessione sul trauma e la depressione, sul dolore e quindi sui luoghi oscuri dell’anima umana.
Un lavoro affascinante, pur con qualche debolezza di scrittura, una prima parte abbastanza ostica e un’eccessiva lunghezza di fondo, ma anche un racconto ambizioso, molto kinghiano, e ricco di inquietudini molto attuali.
Strippoli parla di depressione, difficoltà/impossibilità ad accettare/superare il lutto (o il dolore) e la disillusione nei confronti della vita (o del mondo) raccontando soprattutto di legami recisi, problematici, di senso di abbandono (o di "non" appartenenza) attraverso uno stile che vuole, pur nella sua classicità, contemporaneo.
In questo senso il villaggio di Remis non è tanto un luogo quanto un simbolo della società che fugge dal dolore ad ogni costo, lo rimuove e lo reprime, un mondo dove tutto deve andare bene, dove la tristezza è una colpa e dove l’empatia è calcolata o soltanto simulata ma che sotto la superficie si agita l’orrore dell’annientamento emotivo in quanto le "vere"emozioni, spesso eccessive o incontrollabili, diventano nemiche del bene comune.
Il film diventa anche una riflessione sull’egoismo, sulla genitorialità (tossica) e sul rapporto genitori/figli e sugli errori che, consapevolmente o meno, commettiamo o, peggio ancora, trasmettiamo da una generazione all’altra come anche sull’incapacità di aprirci agli altri.
Anche per questo La valle dei sorrisi appare più come un dramma che non come un horror vero e proprio, forse non mette nemmeno davvero paura, e ci vuole anche un (bel) po' perché il film diventi meno prevedibile e dimostri invece la propria originalità, ovvero di come le pulsioni a lungo sopite tendono ad acquisire un risvolto negativo specie quando vengono sfruttate da elementi esterni per i propri indefiniti fini, ma La valle dei sorrisi è un film che riesce a inquietare, manipolandone le inquietudini e usandole per rivelare l’incapacità, gli abusi e la mostruosità delle persone quando vengono o contato con il fantastico o con qualcosa che sfida la loro razionalità.
Il cast è composto da Michele Riondino, Romana Maggiora Vergano, l'esordiente Giulio Feltri, Paolo Pierobon, Roberto Citran, Sergio Romano, Anna Bellato e Sandra Toffolatti.
VOTO: 6,5
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