Regia di Ari Aster vedi scheda film
E così, anche Ari Aster compie la sua indagine dell’America contemporanea, convogliando all'interno dell'immaginaria cittadina di Eddington pandemia, disinformazione, paure collettive e conflitti sociali.
Il film è costruito attraverso un continuo accumulo di tensioni individuali e collettive, ed ogni sequenza sembra aggiungere nuovi strati di instabilità. L'accumulo, in questo senso, diventa la forma stessa del film, e Aster sembra interessato a farci sentire il peso crescente del caos del paese: la paranoia sanitaria, la polarizzazione politica, il fallimento delle istituzioni, la perdita di fiducia collettiva, i social media, la trasformazione del dissenso politico in ostilità esistenziale, l’incomunicabilità tra le due Americhe (quella repubblicana, rappresentata da Joe Cross, e quella Progressista, del sindaco Ted Garcia).
<span;>L'immaginaria cittadina di Eddington si dispiega come un inventario del contemporaneo, in cui i vari elementi disposti sulla scacchiera diventano i segni della crisi di un paese.
Aster è un regista che lavora per accumulo narrativo, e Eddington ne è la dimostrazione: la prima parte si costruisce su una rete di microtrame che si intrecciano e si disperdono, senza mai trovare una vera coesione. C’è la relazione adulterina tra la moglie dello sceriffo e il sindaco Ted Garcia, il legame tra il figlio di quest’ultimo e la giovane attivista, il santone interpretato da Austin Butler e la sua fuga con la moglie del protagonista. Tutte le storie si configurano come piani di scontro prevalentemente verbali, con dialoghi serrati, schermaglie ideologiche e conflitti retorici che sembrano non condurre da nessuna parte. Si ammassano le tensioni, i conflitti sociali, politici e personali: l’odio sui social, il complottismo, la fascinazione per le armi, le proteste giovanili, il trauma dei nativi americani, il suprematismo bianco. Sembra che debba esserci proprio tutto, e che nulla si possa dimenticare. Così, il film finisce per diventare un elenco esasperato di temi caldi, una sommatoria che mette in scena l’America contemporanea senza però riuscire a darle respiro e organicità.
Aster, quando degrada nel comico o nel grottesco, non costruisce mai una satira che scavi nella realtà dei personaggi o nel tessuto sociale; la sua ironia assume invece un tono artificiale, calcolato e distaccato, come se volesse prendere le distanze dagli eventi che mostra. In questo modo, la coralità del film — che avrebbe potuto ricordare le sinfonie di Altman, Anderson o Tarantino — perde spessore, diventando un mosaico di situazioni e tic narrativi senza vero legame vitale.
L’accumulo verbale, la moltiplicazione dei conflitti ideologici, dei microtemi e dei paradossi digitali restano sospesi, incapaci di instaurare un ponte tra lo spettatore e la città di Eddington.
È solo nella seconda, violenta parte del racconto che il film sembra trovare una direzione, il cui climax sfocia in un rocambolesco scontro a fuoco in stile pulp tra Joe Cross e degli invisibili nemici che sembrano provenire da ogni direzione e da nessun luogo.
In quell’esplosione di sangue e polvere, la violenza diventa il gesto che improvvisamente dà senso al caos, un duello invisibile che richiama piuttosto apertamente quello tra Llewelyn Moss e Anton Chigurh in Non è un paese per vecchi, ma se nei Coen la violenza era ancora un fatto metafisico — qualcosa che interrogava l’ordine del mondo — in Aster rimane un gesto formalmente impeccabile, chirurgico, e proprio per questo in parte sterile. È come se la sua regia contemplasse la morte più che viverla, come se la tensione fosse sempre un calcolo, mai un rischio.
Tuttavia, è in questo scarto tra il calcolo e la carne che il film trova finalmente il proprio battito: la violenza restituisce a Eddington la sua traiettoria, chiude un cerchio, e consegna al racconto una conclusione che fino ad allora sembrava impossibile arrivasse.
La sensazione, nel guardare Eddington, è quella un film che non riesce più a credere davvero nelle immagini che costruisce. Ari Aster osserva il presente in modo piuttosto lucido, ma sembra incapace di trovare in esso una ragione per credere ancora nella possibilità del racconto, nella forza evocativa dello sguardo. È come se il suo cinema, pur popolato da visioni forti e momenti di stupore, non sapesse più a cosa servano quelle immagini, quale fede possa ancora abitarle. Forse è proprio qui che si può riscontrare il problema del suo cinema : in un mondo dove tutto è già stato mostrato, anche l’immagine più forte rischia di apparire gratuita, di non avere più un significato. Eddington abita esattamente questo smarrimento — quello di un autore che filma con rigore e intelligenza, ma che sembra non credere più fino in fondo al potere salvifico del cinema.
Alla fine, ciò che rimane di Eddington è la sensazione di un film che vede tutto ma non sente nulla. Ari Aster osserva il caos del presente in modo certamente intelligente, perché ne conosce le forme, i tic, le derive, ma li dispone sullo schermo con una freddezza che ne disinnesca ogni potenza. La sua ironia non è mai davvero corrosiva né liberatoria: è un gesto calcolato, che smonta i meccanismi della realtà senza mai riuscire a dar loro una vita autonoma. Aster riduce la satira a sistema, a geometria.
Così Eddington diventa il ritratto di un mondo frammentato raccontato da un autore che sembra accettare la frammentazione come condizione inevitabile, non come materia da trasformare. Il film è lucido, persino implacabile, e ha alcuni grandi momenti di cinema (il piano sequenza alla festa con il sindaco, l'omicidio dello stesso e del figlio, la folle sparatoria finale) ma sembra incapace di credere che da quel disordine possa nascere ancora un racconto, una visione, un senso condiviso
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