Regia di Maryam Moghaddam, Behtash Sanaeeha vedi scheda film
Non è mai troppo tardi? Forse no, finché esiste il tempo, anche se è tempo passato.
La solitudine si può declinare in melodia, cercando il giusto accompagnamento. Basta un'armonia di passaggio, uscita dal tocco magico di un dito ideale, che, d'un tratto, decide di sfiorare le corde di un'anima dimenticata in un luogo segreto. La storia è lieve, molti sono gli spazi vuoti, in senso fisico e narrativo, intorno alla figura di Mahin, signora settantenne dall'aspetto bonario e generoso, reso affascinante da un'insolita sfumatura di malinconia. La stessa che, un giorno, mentre è in piedi davanti allo specchio, lei cerca di sottolineare pittoricamente, tracciando sul suo viso i segni di un'emozione struggente: un accento di blu al disopra degli occhi, un alone rosato che dà tono alle guance, un rosso intenso che infiamma le labbra. Con quel tenero mascheramento, si sente pronta ad affrontare il mondo. Esce, in cerca di un'avventura che la strappi alla monotonia, inseguendo timidamente una possibilità in cui, in realtà, crede ben poco. Ma basta un attimo, un incontro casuale, a dilatare all'infinito il tempo di una sera. Sarà davvero esingolare, quell'eternità, in cui l'infinito è tutto rivolto all'indietro, verso un passato a cui attingere i racconti da riportare alla luce, in mezzo al buio di un giardino con le lampadine rotte. La forza di questo film è interamente racchiusa nell'energia con cui un sngolo bagliore può penetrare la scorza di un'oscurità che ha posto stabile dimora dentro la vita di una vedova, invecchiando con dolcezza, come il suo vino, sigillato dentro un bottiglione che non ha più avuto voglia di stappare. E, se l'aria circostante è ferma, bisogna inventare qualcosa che alzi finalmente un po' di vento: l'ebbrezza di un sorso di quello buono, una musica ballabile, un uomo sconosciuto, raccolto per strada, e che non esita ad accogliere l'invito. Quando, apparentemente, nulla succede, perché ormai mancano le forze e gli eventi importanti si sono consumati, ci si può affidare ad un'immaginazione retrospettiva, e farla diventare reale, sulla scia di parole sobrie, accurate, ma pesanti come i corpi disabituati a fare follie. A quest'idea sembra ispirata la sceneggiatura di un'opera in cui il ritmo, apparentemente stentato, ha, in realtà, la solennità di un incedere cermonioso, luminosamente ammantato dalla sensibilità di un sussurro d'amore inespresso. E quanto è godibile, questa tensione, scandita da un cammino in punta di piedi: a poco vale far battere il cuore, se non si aggiunge un po' di commozione. Questa, ne Il mio giardino persiano, non viene mai meno, fino all'ultimo istante, per condensarsi in un epilogo, forse inevitabile, nel quale l'oggi prende il sopravvento, con le sue chiare e prepotenti ragioni.
Il mio giardino persiano (2024): Lily Farhadpour, Esmail Mehrabi
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