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Wicked

Regia di Jon M. Chu vedi scheda film

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La recensione su Wicked

di Ponky_
6 stelle

In un panorama globale attraversato dall’esponenziale crisi del cinema commerciale, ancora incapace di emanciparsi da franchise ormai privi di linfa vitale e sempre più orientato verso film-evento che, come inevitabile controindicazione, trascinano con sé costi produttivi fuori controllo, appare evidente come la saturazione dell’offerta, unita a mutamenti culturali in larga parte prevedibili - tra cui il costante incremento della fruizione in streaming e la predilezione per contenuti sempre più brevi e disimpegnati - stiano vistosamente accelerando il processo erosivo di un sistema in profondo affanno.

In questo tetro firmamento, talvolta flebilmente rischiarato da sparuti bagliori riflessi, “Wicked” brilla di luce propria, come un’isolata stella polare, pronta contro ogni aspettativa a guidare l’industria cinematografica oltre un buio dedalo di invero fisiologica stagnazione.

Concepito sotto un’egida di conclamata riverenza - nonchè di velato dileggio - verso la madre putativa Disney, il film ne rielabora gli stilemi dei primi anni Duemila (2000-2010) per la costruzione di personaggi sovversivi dei canoni classici, mentre recupera dalle origini il gusto per la messa in scena, finendo per soppiantarla nell’impietoso confronto tra live-action. In un vicendevole scambio di ruoli, dovrebbe essere il colosso di Burbank a prendere ora appunti, dal momento che — dal concept all’esecuzione — il modello proposto è in tutto e per tutto applicabile alla sterminata galassia di side-story desumibili da oltre un secolo di produzioni, potenzialmente foriere di qualche flebile novità come contraltare a quel crogiolo di vetuste certezze che vanno sbriciolandosi sotto il peso dell’incalzante débâcle economica e qualitativa.

Sarebbe tuttavia disonesto non rilevare come gli encomi fin qui riportati siano chiaro frutto del senno del poi, dal momento che, in via preventiva, l’impressione preponderante in merito alla pellicola oscillasse tra l’impalpabilità e la repellenza - in primis per un production design di apparente pessimo gusto - con l’ennesimo sperpero di milioni di dollari (intorno ai 150) pronto a stagliarsi dietro un orizzonte artistico impercettibile. Sorprendentemente, ciò che viceversa si materializza sul grande schermo è un musical ambizioso, pienamente consapevole della propria natura e, proprio per questo, abile nella calibrazione di toni e ritmi, così come nell'individuazione di un target ben preciso senza però dimenticare quei fondamentali schemi narrativi utili a coinvolgere anche un pubblico più ampio.

A risultare meno convincente, nel paradosso, è invece il comparto musicale, privo di brani davvero memorabili e di un supporto coreografico che non si limiti a una formale esecuzione, oltremodo ordinaria per poter imprimere sensazioni ulteriori al mero intrattenimento monouso; un peccato capitale che eppure non trascina nel baratro le restanti componenti, sufficientemente strutturate per garantire un solido equilibrio d’insieme. Tra di esse spicca un impianto visivo che, sovvertendo ogni aspettativa, si rivela funzionale alla modellazione di un universo narrativo internamente coerente, in cui è percepibile e apprezzabile la valorizzazione dell’ingente quota di budget investito in ambienti ed effetti visivi, sapientemente integrati con attori e scenografie. Anche la regia, firmata da Jon M. Chu - tra i più scalcinati mestieranti in circolazione - dimostra una certa padronanza della scena, regalando perfino un paio di piacevoli acuti.

Le performance di Ariana Grande e Cynthia Erivo risultano convincenti e perfettamente aderenti ai rispettivi personaggi, mentre le tematiche affrontate — per quanto semplici — vengono rese accessibili senza scadere nella banalizzazione, in una calibrata alternanza di commedia e dramma che scorre senza prevaricazioni.

In definitiva, nonostante l’eccessiva ellissi in uno snodo discretamente cruciale e la maldestra gestione della scena madre al giro di boa — a riprova dei deficit puntuali — “Wicked” dimostra una straordinaria dote armonizzatrice, tale da nobilitare anche quei tratti che, estrapolati dal contesto, risulterebbero posticci e respingenti, proprio come lasciava presagire quella prima, frettolosa e pregiudizievole occhiata.

L’afflato epico di cui il Cinema è da lungo tempo orfano e dannatamente bisognoso sembra finalmente aver trovato un varco da cui tornare a propagarsi, con la speranza che la seconda parte del progetto confermi le promesse, potendosi così elevare a punto di riferimento per quella decorosa qualità media che, congiunta a un indotto economico tanto diretto quanto collaterale, possa assumere un ruolo determinante nell’infusione di nuovo vigore all’agonizzante apparato hollywoodiano.

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