Regia di Kevin Costner, Robert Legato vedi scheda film
Più che un film, Horizon è un continente narrativo in lento movimento. Si apre con la solita terra promessa da conquistare, che però nessuno ha chiesto e che i nativi difendono a colpi di tomahawk, tra assedi interminabili e carovane in perenne rotta di collisione con la Storia. In mezzo, vite sparse come sassolini sul sentiero: una madre sopravvissuta all’ennesima carneficina, un cowboy solitario (Costner, in modalità zen e con l’agenda libera solo da metà film in poi), una prostituta con senso materno, una coppia inglese snob in trasferta sociologica, e una tribù apache che prova disperatamente a resistere prima di essere ridotta a funzione narrativa. Tutto si muove con la calma dei grandi affreschi e l’ampiezza di un progetto che ha la forma della saga e l’ambizione dell’epopea. L’intreccio, se c’è, dorme. Qui le storie si accatastano come legna da ardere: non si incontrano, non dialogano, ma convivono, lasciando al paesaggio e ai silenzi il compito di legarle. Più che John Ford, viene in mente un Proust con la passione per i cavalli.
La durata – 180 minuti che si sentono tutti – è parte integrante dell’esperienza: c’è chi la chiamerà immersione, chi deriva. Ma è proprio nella dilatazione che Horizon trova il suo senso: ogni scena vuole il suo tempo, ogni volto la sua eternità, ogni tramonto il suo climax. Costner non gira: contempla. Il suo è un omaggio al western classico, ma con il ritmo di chi ha tutto il tempo del mondo (e vuole che anche tu lo abbia). Il risultato oscilla tra nostalgia e solennità, tra il piacere ritrovato di un cinema “vecchio stile” e il sospetto che ci stia raccontando una storia che conosciamo fin troppo bene e che forse avrebbe potuto dirci qualcosa di più. Ma l’amore per il genere è sincero, e in certi momenti si sente. Magari il mito del cowboy non è morto. Ma anche lui, ormai, ha bisogno di riposare ogni tanto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta