Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film
Il film più inclassificabile di Pasolini in cui porta alle estreme conseguenze – in termini di “sopportabilità” visiva – le sue meditazioni circa la società del tempo e l’incipiente consumismo di massa indirizzante verso il rimbambimento e l’anestetizzazione collettivi. Come osservato da molti, la cornice storica dell’epoca fascista non è altro che un travestimento per il tramite del quale l’autore intende parlare del suo tempo presente, i ‘70. «Semmai, l’obiettivo implicito da colpire, sotto il velame della storia di una dittatura al tramonto, è quello dell’intolleranza di un potere – l’attuale – che ha degradato [persino] i sentimenti, la sessualità e la stessa moralità a meri oggetti di consumo» (F. Di Giammatteo).
Ma forse sarebbe meglio dire che con Salò si cerca di andare scientemente a superare ogni soglia di “tollerabilità”, dello spettatore medio, ma anche e soprattutto della censura e quindi del Potere. Da qui un film per l’appunto estremo.
La decisione di procedere in tal senso deriva dagli sviluppi nella riflessione di Pasolini, seguendo i quali arriva all’abiura della Trilogia della Vita. Questo in quanto là si narrava della liberazione sessuale e della felicità che può derivare appunto da un godimento libero e gioioso dell’amore.
Ma giustappunto, ritiene Pasolini, oramai anche il sesso è ridotto – come nel più squallido dei film pornografici – a consumo meccanico, è tollerato e per ciò stesso diviene consuetudine e “obbligo”, il corpo umano ridotto a merce, il godimento illimitato elevato a valore in sé.
Emerge una valutazione circa l’anarchia del potere che può – e anzi pretende di – estraniarsi da qualunque senso morale, un potere dunque assoluto e senza limiti né confini, che finisce in qualche modo per rendere compartecipi se non addirittura complici molti, se non tutti, dei suoi stessi subordinati, delle sue stesse vittime.
Il consumo – unico godimento socialmente accettabile, anche in ambito sessuale – si staglia come unico orizzonte di senso non tanto dell’epoca del fascismo agli sgoccioli quanto della società di massa post-boom economico, alle soglie della transizione epocale – potremmo aggiungere col proverbiale senno di poi – di marca neoliberista.
E se al giorno d’oggi le sedicenti provocazioni di sedicenti artisti – cantanti o registi che siano – paiono ben poca cosa e tranquillamente tollerate, è proprio per quel che aveva intravisto il regista-poeta, ossia che la trasgressione – in specie sessuale, ma non solo – non intacca il sistema, ma anzi lo alimenta, tutto è stato riassorbito nell’unica logica del profitto, dell’accumulo, del consumo (anche la cosiddetta controcultura del tempo che fu, che ora si riverbera in infinite vestigia, negli spot pubblicitari come sulle magliette di mezzo mondo, diventando fondamentalmente innocua ma lucrosamente commerciabile ad libitum).
Salò intende portare allo stremo ciò che si “può” mostrare in un’opera cinematografica proprio nell’ottica, di nuovo, di rompere tale patina di ipocrita tolleranza da parte del Potere nella forma della censura. Quel Potere – l’insieme dei poteri ecclesiastico, aristocratico, giudiziario ed economico (significativamente assente quello politico, un men che potere, spesso una mera ancella degli altri) – che tutto può e che non riconosce alcuna virtù al di fuori di sé medesimo: il macabro, insostenibile “rituale” portato in scena, nella sua brutalità, evidenzia la mancanza totale di senso: nulla ha più valore, nulla è più sacro, tutto è profanato, dai corpi alle menti. Tutto ridotto a merce da consumare e godere.
Ora, si può essere o meno d’accordo col messaggio, condividerlo solo in parte (ignorando la componente di alternativa pasoliniana tendente al reazionarismo di una sorta di eden perduto di quando si era poveri – spesso in miseria – ma almeno si mantenevano le care vecchie tradizioni, l’umanesimo, il senso del sacro, una sessualità più “pura” ecc.) ma di sicuro non può lasciare indifferenti. Dunque, Pasolini da questo punto di vista ha colpito nel segno.
Salò è quanto di più distante dalla pornografia – dato che né stuzzica né titilla, tutt’altro – e per di più – per il tramite di una ironia e di un sarcasmo spesso grevi di sottofondo che sottolineano per l’ennesima volta l’insulsaggine disumana di un massacro perpetrato senza riguardi per l’altra persona, ridotta a non-ente verso cui non si prova niente se non bestiale attrazione fisica – ingenera una bizzarra sensazione di malessere che nessun altro film mostrante efferatezze a ripetizione riesce a ingenerare, evitando dunque anche il rischio dell’altra pornografia, quella della violenza.
L’opera risulta pressoché priva di ogni speranza (la stessa scena del ballo conclusiva può essere intesa come la rappresentazione dell’insensatezza e dell’incoscienza, «la follia e la smemoratezza che seguono l’orrore» [Di Giammatteo]) mostrando tra l’altro come ogni pur flebile moto di rivolta, rimanendo individuale, sia fatalmente destinato al fallimento (come nella scena probabilmente un po’ troppo didascalica del pugno chiuso).
Chi scrive nutre dei dubbi circa l’effettiva efficacia del messaggio se portato avanti in questi termini, in un film difatti da molti non compreso, da altri frainteso, da altri ancora abbandonato, da altri infine mai affrontato per via della fama di opera-limite.
Di nuovo: non lascia ovviamente indifferenti, Salò, ma allo stesso tempo forse fatica a risultare completamente efficace a livello ideologico (ammesso che il cinema possa davvero cambiare la visione delle cose di almeno parte degli spettatori), anche per via del fatto che risulta disperato, dando l’idea di un mondo, al fondo, senza possibilità di redenzione. Sicuramente non si tratta di una vacua ricerca dell’eccesso fine a se stesso (come sin troppo di frequente accade) e almeno una visione – da cinefili ma pure da persone interessate alla storia del pensiero italiano contemporaneo – questo film, oseremmo dire filosofico, ben la vale.
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