Regia di Shinya Tsukamoto vedi scheda film
Tsuda è un agente assicurativo che passa le sue giornate in ufficio e in casa davanti alla televisione accanto alla sua fidanzata, Hizguru è la fidanzata di Tsuda che passa le sue giornate a far lavori in casa, Kojima è un boxeur professionista che passa le sue giornate in palestra ad allenarsi, e in una modesta casa di periferia. Tutti e tre vivono in una grigia e asettica Tokyo, tutti e tre combattono l’uno contro l’altro, infatti Kojima non esita un secondo a impadronirsi di Hizguru, la porta a casa sua, dove quasi per reazione comunque complice, Hizguru comincia a infliggersi ferite alla carne, a infilarsi piercing su tutto il corpo, e a farsi fare tatuaggi sulle braccia. Tsuda, ex compagno di liceo di Kojima si vuole vendicare di tutti i torti subiti fin dall’infanzia, e inizia così a dare di boxe per affrontare poi sul ring Kojima, e per riavere la sua donna.
Tsukamoto, dopo alcuni entusiasmanti esperimenti cinematografici (Tetsuo, Hiruko, Tetsuo II: Body Hammer), trasporta la sua prorompente genialità da un cinema appunto sperimentale ad uno molto più conscio sia di scelte stilistiche che di scelte argomentative. E il caso di “Tokyo Fist”, considerato da molti il suo miglior lavoro, è il primo del quarantaquattrenne regista giapponese, che crea così una grandiosa fusione congenita, tra cinema, vita, violenza e sessualità. Proprio i protagonisti, dalle loro evidenti diversità, sprigionano caratteri esistenziali dell’uomo tecnologico, turbe mentali, quotidianità corrotte e quant’altro, per riuscire ad identificare in una maniera pura, le malattie dell’uomo subordinato alla metropoli, l’uomo incollato al grigiore dell’esistere giornalmente, l’uomo sprigionante violenza per il cambiamento della routine. Non esiste né amore né odio a Tokyo, esiste indifferenza, violentissima indifferenza, sembra volerci comunicare l’ormai affermato Shinya Tsukamoto, e lo fa in una maniera del tutto personale, con continui movimenti di macchina, inframmezzati da surreali immagini, significati di violenza. La storia, seppur esile, regge grazie all’analisi cancerogena della boxe, del pugno, del sangue, della carne, all’osservazione graffiante di un archetipo visivo, dal quale il regista Quentin Tarantino attingerà spesso, che rende tutto più originale, innovativo, grande. È inconfutabile la maestria di un regista che ha iniziato a fare cinema a soli quattordici anni, un cineasta della carne debitore certamente ai grandi psichiatri cinematografici, quali Cronenberg, Kubrick, Lynch, ma iniziatore soprattutto di un arte avanguardista, nonsense e attitudinale, di nicchia ma ancestrale. Tsukamoto ha fatto di meglio in quanto a originalità, ma “Tokyo Fist” segna la fine, di un epoca, quella della normalità dell’uomo in ambito asetticamente metropolitano, e segna l’inizio di un nuovo modellamento degli attori, un evoluzione primordiale, verso l’auto repressione, verso la costretta manifestazione di una sessualità nascosta, verso l’apologia dei vinti, non più dei vincitori.
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