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La notte dei morti viventi

Regia di George A. Romero vedi scheda film

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La recensione su La notte dei morti viventi

di Ponky_
10 stelle

Nonostante rappresenti l’esordio al lungometraggio di George A. Romero, “La Notte dei Morti Viventi” è già pienamente permeato del suo inconfondibile stile, modellato in forma grezza ma al contempo perfettamente distinguibile nei propri tratti vitali, con solo una minima distanza da colmare per giungere ad una pienezza formale e contenutistica che non tarderà a manifestarsi, seguita a ruota da un articolato impatto culturale i cui tentacoli continuano ad estendersi ben oltre il presente.
La povertà di mezzi, lungi dall’essere un limite, viene intelligentemente trasformata in risorsa, come nella migliore tradizione dell’horror: l’inevitabile bianco e nero - di straordinario effetto visivo - finisce paradossalmente per mascherare l’assenza di budget, conferendo all’opera un fascino atemporalmente perturbante, difficilmente concepibile a tavolino.
Sempre nel solco dell’economia, la colonna sonora è costruita attingendo da una rosa di brani preesistenti, che ammantano le immagini senza soverchiarle, fungendo da perfetto ausilio alla creazione di una tensione che serpeggia lentamente nell’etere fino all’improvviso assalto, seguendo il medesimo moto dei morti viventi.
Sorprende, ancora oggi, la decisa direzione di resistenza alla tentazione di proporre azione od orrore fini a sé stessi, favorendo il respiro di un racconto spietato, privo di speranza fin dalle prime battute, in cui nessuno viene risparmiato, né sul piano morale, né su quello concretamente vitale: come sovente accade nella disgrazia, l’uomo — indipendentemente da genere, razza o status sociale — rivela un’innata capacità di distruggere anziché unire, di rigettare ogni tentativo di risoluzione dei conflitti che passi per la condivisione e la collettività, in favore di un auto-sabotante individualismo che ottiene come unico risultato il concepimento di nuovi mostri, in ogni immaginabile sfumatura semantica del termine.
La gestazione del dramma, volta al verosimile, distribuisce un ampio spettro di archetipi tra i personaggi, riuscendo a restituire molteplici piani di reazione all’evento traumatico: tra di essi, si distingue Duane Jones – il primo afroamericano protagonista in una pellicola d’orrore – la cui scritturazione fu candidamente giustificata, dal regista in persona, con la semplice evidenza che questi fosse stato il migliore ai casting. Un punto, questo, a riprova dell’universalità del messaggio romeriano, a evidenziare come il sottotesto politico, in senso stretto, si presti molto più alla mera speculazione intellettuale che non al rispetto dell’effettiva direzione artistica stabilita dall’autore. Malgrado le proprie notorie e condivisibili convinzioni politiche, quest’ultimo risulta infatti - in questo frangente - scevro da qualsivoglia tatticismo sfruttante il coevo clima di esacerbazione della tensione sociale, culminato con l’assassinio di Martin Luther King Jr, occorso proprio in quel 1968 che segnò l’uscita del film nei cinema a stelle e strisce.
Il fondamentale filtro affidato ai media, leitmotiv del cinema di Romero, costituisce un’ambigua ancora di (cieca) speranza a cui il pubblico - e i personaggi stessi - si aggrappano con ineluttabili esiti, fornendo molteplici spunti di riflessione su quella vasta gamma di strumenti che, di generazione in generazione, hanno influenzato e influenzeranno, sempre maggiormente, vite e comportamenti umani, nel bene e nel male.
Benché dominato da squartamenti e cannibalismo, la pellicola non si crogiola nel vacuo scandalismo ma ridefinisce - più o meno consapevolmente - i confini dell’horror, fissando i tratti fondamentali della figura dello zombie per come è oggi universalmente nota: senza mai chiamarlo all’appello, il cineasta codifica un immaginario che sarà ripreso e differentemente declinato da centinaia di epigoni, spesso mantenendo il medesimo nichilismo di fondo come cifra prevalente.
Nonostante un’interminabile serie di precondizioni avverse, “La notte dei morti viventi” si impone come un caposaldo del genere e del cinema tout court, costituendo un efficace ritratto sociale pienamente compiuto entro i propri confini, senza necessitare di futili sovraletture allegoriche che non ne nobilitano ulteriormente lo status di classico che già gli appartiene.

 

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