Regia di Emerald Fennell vedi scheda film
Una donna promettente è quel film che ha molto da dire e un messaggio forte, ma che poi, per un motivo o per un altro, fatica a trasmetterlo davvero. Quel tipo di film che ogni volta sembra sul punto di raggiungere un climax esplosivo…ma non riesce mai ad arrivarci per davvero.
Molto simile e con alcuni rimandi a Kill Bill di Tarantino (basti pensare ai capitoli, ognuno legato a un diverso personaggio secondario di cui si deve vendicare, o alla musica pop utilizzata), si configura come un revenge movie che però non usa la violenza come mezzo di espressione, bensì mette l’uomo contro sé stesso. L’uso dei colori pastello all’interno del film (così come la musica pop, Stars are Blind e Toxic di Spears) rappresentano l’ipocrisia umana, ma lo fanno visivamente.
Il film appare leggermente retorico, non tanto dal punto di vista della sceneggiatura, quanto da quello visivo, del linguaggio cinematografico. La regia, considerando che si tratta dell’opera prima della regista, è molto buona e dimostra che sa come padroneggiare la macchina da presa.
Ciò che però rovina totalmente il film è la sceneggiatura. Scontata, stereotipata e persino didascalica nei momenti in cui lei incontra altre persone (la rettrice, Al Monroe, Ryan)...insomma, ogni volta che torna a parlare con qualcuno del suo passato e cerca vendetta per Nina. Perché? Perché ogni volta deve sbatterti in faccia dove il film vuole andare a parare, senza lasciare allo spettatore la possibilità di pensare. Rimane vuota, incompleta, con dei buchi di trama e concetti che vengono mostrati ma poi mai approfonditi (come, per esempio, il colore diverso di colori usati o come mai lei non voglia minimamente andarsene dalla caffetteria dove lavora).
I dialoghi stessi, poi, sono sconfortantemente banali e avrebbero potuto essere scritti in modo completamente diverso, invece di risultare così ovvi e piatti. Fin dalle primissime scene, il film rende chiaro dove vuole andare a parare e come finirà, e con la scena finale rischia di cadere nel buonismo.
Se fosse terminato senza l’appendice, con la storia che finiva male, non avrebbe lasciato il minimo barlume di speranza: così, invece, il film, presuppone che lei ottenga la sua vendetta, in un modo o nell’altro…e l’epilogo finisce per risultare, suo malgrado, un po’ buonista (nonostante tutto ciò che era stato mostrato prima).
Non è sempre utile trasmettere quel messaggio positivista del tipo “vedi, andrà tutto bene”, anche quando le cose vanno male. Non capirò mai questa paura di lasciare che il “cattivo” vinca.
Inoltre il cast non risulta buono e nessuno convince pienamente: non convince Carey Mulligan in primis, che recita per 2h con le 3 stesse, medesime, espressioni, non convince Bo Burnham che sembra stia recitando per la prima volta la sceneggiatura e non convince nemmeno Chris Lowell, anche lui come gli altri due, incapace di cambiare minimamente espressività (nelle uniche 3 scene in cui viene mostrato).
Per essere un film d’esordio, in realtà non è neanche poi così malvagio (ho visto debutti peggiori), ma non è abbastanza buono da poter essere davvero promosso.
P.S.: In definitiva, guardando il film, direi che abbiamo finalmente la risposta alla domanda: “Come sarebbe Kill Bill se non fosse diretto da Tarantino?” Beh… ecco la risposta.
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