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Il sapore della ciliegia

Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il sapore della ciliegia

di IlCinefilorosso
8 stelle

Vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes nel 1997, Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami si impone come una delle vette assolute del cinema iraniano contemporaneo. Un’opera che, pur inscritta nelle coordinate di un minimalismo rigoroso, dispiega una densità filosofica e sensoriale rara, avvolgendo lo spettatore in un viaggio dove lo spazio e il tempo cessano di essere semplici contenitori narrativi per farsi sostanza stessa dell’esperienza cinematografica.

 

Il film si colloca nel cuore dell’Iran post-rivoluzionario, in un decennio, quello degli anni Novanta, segnato da un delicato equilibrio tra apertura internazionale e persistenti restrizioni interne. L’arte, e il cinema in particolare, si muovono allora in una zona di costante mediazione: aggirare la censura senza tradire il nucleo espressivo. Kiarostami, maestro del linguaggio ellittico e della messa in scena sottrattiva, trova in questa condizione un terreno fertile per scolpire un racconto sul limite e sull’inesprimibile.

 

Il signor Badii, alla guida della sua automobile, percorre senza sosta le colline polverose ai margini di Teheran. Fermandosi di tanto in tanto, instaura brevi conversazioni con sconosciuti: un giovane soldato curdo, uno studente afgano di teologia, un anziano tassidermista azero. È alla ricerca di qualcuno disposto, dietro compenso, a compiere un atto preciso: coprirlo di terra dopo che avrà posto fine alla propria vita. Kiarostami rivela gradualmente le intenzioni del protagonista, dilazionando la piena comprensione in un’attesa che è essa stessa parte integrante del viaggio.

 

In questa partitura narrativa, l'auto diventa un microcosmo mobile: spazio semi-privato che consente dialogo diretto, ma anche gabbia in movimento, luogo di reclusione mentale. Fuori dal finestrino, il paesaggio si dispiega in modo sinfonico: serpentine, saliscendi, tornanti vertiginosi che sfidano la linearità, alternando l’aridità delle cave e delle terre brulle alla dolcezza inattesa di tratti erbosi, ventilati, animati da canti d’uccelli. Il découpage, con le sue alternanze di campi lunghi e inquadrature serrate nell’abitacolo, amplifica la percezione fisica del tragitto, facendo sentire allo spettatore la fatica e l’ipnosi del viaggio.

 

Lo spazio, in Kiarostami, non è mai neutro. Gli spazi aperti, potenzialmente liberatori, si rivelano luoghi di isolamento, dove l’ampiezza dell’orizzonte sottolinea la sproporzione tra l’uomo e il mondo. Gli spazi chiusi, al contrario, pur claustrofobici, possono diventare luoghi di contatto e di ascolto. È in questa dialettica che il film trova la sua tensione più profonda, trasformando lo spazio fisico in paesaggio interiore.

 

Il tempo, a sua volta, non è misurato secondo le esigenze della trama, ma secondo il respiro del viaggio: dilatato, circolare, scandito realisticamente dalle curve e dai dialoghi, punteggiato da sospensioni e silenzi che obbligano lo spettatore a restare presente, ad “abitarlo”. Incontri brevi e ansiosi si alternano a conversazioni lente e distese, e il fluire temporale si piega alla qualità emotiva di ogni tappa.

 

I tre dialoghi-cardine segnano così una progressione: dal rifiuto impaurito del giovane soldato, alla comprensione impossibile dello studente religioso, fino alla condivisione partecipe dell’anziano tassidermista, portatore di una saggezza empirica che si traduce in un racconto di rinascita, legato alla percezione sensoriale di una ciliegia. Il paesaggio stesso accompagna questa evoluzione: da un arido mondo minerale a un contesto vegetale e vitale.

E poi, il finale. Dopo il buio della possibile morte, un taglio netto ci consegna al “dietro le quinte”: la troupe, la musica, il verde della primavera. Ma attenzione, perché non si tratta di una negazione della finzione, ma un suo disvelamento poetico. Kiarostami ci ricorda che il cinema è costruzione, che la vita continua oltre il fotogramma, che il senso non si trova nel mostrare la fine, ma nel restituire allo spettatore la responsabilità di pensare e sentire. È un gesto che è insieme atto di libertà artistica e protezione etica, in un contesto in cui il suicidio non poteva essere mostrato.

 

Il sapore della ciliegia è dunque un’opera vertiginosa e sospesa, in cui il viaggio fisico e quello interiore coincidono.

In esso, Kiarostami orchestra una sinfonia di linee, durate, silenzi e aperture, costruendo un'opera che, a quasi trent’anni dalla sua realizzazione, continua a parlare con voce limpida e al tempo stesso misteriosa della nostra irriducibile condizione di viaggiatori tra la vita e la morte.

 

 

 

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