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The Sower

Regia di Marine Francen vedi scheda film

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La recensione su The Sower

di lamettrie
9 stelle

Una tragedia, con tutti i sacri crismi. Ben fatta. Asciutta, ma pregna di senso. Un dramma storico. Un affresco sociologico. Uno squarcio psicoanalitico.

Di tragico ha i requisiti classici, in tutti i termini: l’ineluttabilità di certe circostanze, più grandi del proprio arbitro, indesiderate e ingovernabili (memorabile il resoconto che un reduce fa degli uomini sopravvissuti: dalle sue labbra pendono la disperazione, la speranza e la gioia di tante donne, in pochi secondi); la limitata possibilità di determinare il proprio destino all’interno di tale aleatorio ventaglio di eventualità (le scelte dei due amanti principali sono dettate essenzialmente da variabili non a loro disponibili, e imprevedibili poco tempo prima): e, dunque, incertezza sul futuro, che obbliga a compiere scelte di cui magari poi ci si dovrà – molto probabilmente – pentire ma che, al momento, appaiono il male minore, con tutto il dolore che impone la quota - ben alta – residua di male che necessariamente si ha da affrontare in un caso estremo del genere.

Estremo, ma nient’affatto inverosimile. Infatti – come è noto – la storia è una storia vera, per quanto paradossale: tratta dal racconto autobiografico di una contadina, a malapena capace di leggere e scrivere, che nel 1852 aveva 18 anni, e che si è messa a metterla nero su bianco a 84 anni, appena finita la più grande tragedia che l’umanità aveva mai vissuto sino ad allora, cioè la prima guerra mondiale (e ancor di più nella sensibilità di una francese).

Lo spaccato storico è poi eccellente: sia per la resistenza contro il totalitarismo, sia per la resa della vita quotidiana.

La resistenza è citata in modo originale: dal – come già ricordato – tragico punto di vista delle vedove; o di chi non può sperare di avere un marito, o qualcuno con cui mettere al mondo dei figli, oppure un padre che possa educare assieme alla madre i figli già concepiti e/o già venuti alla luce.n

Qui si innesta, in modo meraviglioso, la sensibilità psicoanalitica: di un film al femminile, essenzialmente, di cui vigorosamente concorrono tutte le spinte: pulsionali (l’appagamento libidico, così pressante nella giovinezza qui presentata, ma in realtà sempre, pur in modo diverso a seconda dei casi); idealizzanti (il bisogno di un partner “ideale”, che non dovrebbe mai essere il primo arrivato, su cui invece tutte d’accordo si adeguano per istinto di sopravvivenza – e qui sta il nocciolo, originalissimo, dell’ottima sceneggiatura); di appartenenza sociale (l’accordo per la sopravvivenza è comunitario – e non può che esserlo, pena l’essere indifese, a maggior ragione in quanto “rimaste solo donne “, e prevale su altre valutazioni, pur con conseguenze drammatiche); seduttive (notevole il caleidoscopio delle menzogne con cui, da teatrino di provincia, tutti devono accettare l’idea – pur poco nobilitante – di doversi accoppiare per necessità, innanzitutto carnalmente – e “badando al sodo”, quindi - ma d’altronde dovendo anche salvare le apparenze).

In tutto ciò riluce anche la femminilità di una forma di resistenza storica: fragili, quasi condannate a perdere, ma orgogliosamente, e concretamente, capaci di produrre resistenza. Senza mai tradire l’alta testimonianza dei loro uomini, che sono stati uccisi, deportati, torturati, seviziati (loro ciò possono intuirlo, pur non essendocene certe; e si torna alla tragicità del dubbio, quando la posta in gioco è elevata – è ciò è indipendente poi dal livello di partenza culturale) per delle nobili ragioni: quella della democrazia contro l’autoritarismo. L’orrore della violenza della dittatura del nipotino di Napoleone è adombrata, ma si staglia comunque nella sua terribile tragicità, appunto.

Poi qui riluce la storia anche come quotidianità: di gente fuori dal mondo, anche a metà ‘800. Fuori dal mondo perché costoro non sanno nulla di sensato, della realtà che ai livelli più elevati invece ne determina il grosso della loro esistenza. Ciononostante, sono persone pulsanti, che vivono, si allietano e si rattristano, come tutti i viventi, e come ha vissuto la stragrande maggioranza degli homo sapiens sapiens come noi.

La rarità del loro lavarsi, e del loro pulirsi le – pochissime – vesti; la semplicità del loro modo di sopravvivere – cui fa da splendido contraltare la eccezionalità del loro modo di leggere, cui giustamente attribuiscono un grande valore, ben più alto di quello che vi attribuiamo noi, che vi siamo ben abituati, e spesso solo per obbligo, magari pure indesiderato – tutto ciò innerva la sceneggiatura di un grande interesse e dignità umana, pur nel silenzio dei ritmi eterni della terra, e della relativa agricoltura – immortalati in modo magnifico da fotografia e scenografie eccellenti. Le quali ridondano di citazioni all’arte del’800, proprio il periodo infatti in cui è incastonato il film: da Van Gogh a Millet… Ma è anche proprio il periodo in cui il naturalismo poteva finalmente emergere, con la sua attenzione verso gli umili, e dunque la condizione umana in senso generale, e non classista (come sempre era stata prima, e – di fatto – quasi sempre anche dopo, sino ai nostri giorni, pur con tremende contraddizioni).

Qui gioca un grande ruolo la sapienza della tradizione cinematografica francese: con quel “non detto” che lascia trasparire cose serissime, non necessariamente intellettualistiche, anzi. Perfino dal rivolo di sangue delle mestruazioni, che percorre le cosce della contadina sempliciotta, trapassa un vissuto del tutto significativo, e dignitoso: qui sull’attesa della auspicata gravidanza…         

La recitazione collettiva rispetta lo spartito della limitatezza delle parole delle contadine: parole, come detto, che però sono pregne di significato vero; e di pregnanza anche materiale, vista come maternità che è unica condizione per far nascere davvero la vita, per dare futuro a sé stessi, alla comunità, all’umanità.

E ciò filtra in modo squisito, psicoanaliticamente parlando, in tutto il film di Marine Francen, che ne ha scritto la profondissima sceneggiatura, ricca di vari rimandi, assieme ad altri: compresa Violette Ailhaud, il cui testo un secolo dopo è servito di base. Di un agile film (poco più di un’ora e mezza) che da noi è stati distribuito in modo assai limitato: otto anni dopo, e solo con sottotitoli - il che però non ne ha tolto nulla al valore, anzi. E che ha un titolo perfetto: il seminatore. In campo agrario e in ogni campo.

Intense, a loro modo, le scene erotiche. A suo modo commuovente - e in controtendenza con l'aspettativa tradizionale - la ragazza che guarda di soppiatto dalla finestra l'uomo che desidera; così come quella che supplisce da sola alla mancanza di "materia prima", di un uomo da amare.     

La fertilità, come bisogno soprattutto femminile – ma certo non solo – è qui esaltata: proprio per il suo bisogno di creare il futuro; cioè, soprattutto, di non arrendersi all’estinzione, in tutti i sensi che ciò richiede.  

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