Regia di Anatole Litvak vedi scheda film
Un film coraggioso e civile, che denuncia un sistema disumano e trova nel realismo la sua arma più potente. Ancora oggi resta un esempio di cinema che osa guardare dove altri distolgono lo sguardo.

Un film che colpisce per la sua crudezza e per il coraggio di mostrare ciò che il cinema americano, fino a quel momento, aveva preferito ignorare. La fossa dei serpenti (1948) di Anatole Litvak affronta di petto la malattia mentale e lo fa con uno sguardo realistico, disincantato e sorprendentemente moderno. Ambientato in un ospedale psichiatrico statale americano dell’immediato dopoguerra, restituisce un quadro duro ma profondamente umano delle condizioni in cui vivevano i pazienti, segnando un punto di svolta per il modo in cui Hollywood avrebbe trattato la follia sullo schermo.
Virginia (Olivia de Havilland) si risveglia in un ospedale psichiatrico senza ricordare come ci sia arrivata. Il marito Robert (Mark Stevens) le sta vicino, cercando di aiutarla a ricostruire la propria vita e a ritrovare stabilità. Il Dr. Kik (Leo Genn) la guida attraverso un percorso terapeutico che la porta a confrontarsi con i ricordi dolorosi e con la complessità della vita in reparto. Attraverso le interazioni con gli altri pazienti e le difficoltà quotidiane, Virginia affronta momenti di confusione e disperazione, cercando gradualmente di recuperare lucidità e forza interiore. Flashback e introspezioni rivelano traumi passati, dalla sua infanzia alle esperienze traumatiche successive, mostrando come il percorso terapeutico sia intrecciato con la memoria e la storia personale.

Anatole Litvak dirige con grande sensibilità psicologica, alternando sequenze di forte tensione emotiva a momenti più quieti di introspezione. Le scelte visive – movimenti di camera, inquadrature ravvicinate e transizioni tra presente e ricordo – permettono allo spettatore di percepire lo smarrimento e la fragilità della protagonista senza indulgere nel melodramma. Litvak impose al cast e alla troupe tre mesi di ricerche sul campo, visitando veri ospedali psichiatrici e partecipando a conferenze con psichiatri di spicco, e girò gran parte del film nel Camarillo State Mental Hospital in California, garantendo autenticità e rigore documentaristico. La sua regia riuscì a trasmettere con precisione sia la tensione psicologica che la realtà quotidiana del manicomio, un lavoro che gli valse il Premio Internazionale al Miglior Film al Festival di Venezia 1949 e la candidatura all’Oscar come miglior regia.

La sceneggiatura di Millen Brand e Frank Partos è tratta dal romanzo autobiografico di Mary Jane Ward, che raccontava le proprie esperienze in un ospedale psichiatrico negli Stati Uniti negli anni ’40. La trasposizione cinematografica mantiene il focus sui protagonisti e sui loro percorsi emotivi, con dialoghi essenziali e funzionali. Vengono mostrati i trattamenti dell’epoca – elettroshock, narcoanalisi e psicoterapia – e il modo in cui incidono sulla mente dei pazienti, integrando il percorso di Virginia con le dinamiche relazionali e le difficoltà quotidiane dell’istituto. La sceneggiatura preserva il carattere autobiografico e realistico del romanzo, e fu candidata all’Oscar per la Migliore sceneggiatura non originale.

Olivia de Havilland interpreta Virginia Stuart con intensità e credibilità, rendendo vivida la lotta interiore della protagonista tra smarrimento e lucidità. Gene Tierney fu la prima scelta per il ruolo, ma dovette rinunciare a causa della gravidanza, aprendo la strada a de Havilland, che si preparò con grande dedizione osservando procedure reali come elettroshock, idroterapia e sedute di terapia individuale, partecipando persino a eventi sociali con i pazienti. Questa preparazione rafforzò la veridicità della sua interpretazione e le valse, oltre alla nomination all’Oscar come miglior attrice protagonista, anche il premio per la miglior interpretazione femminile al Festival di Venezia 1949. Mark Stevens, nei panni del marito Robert, fornisce un punto di stabilità emotiva, mentre Leo Genn è il Dr. Kik, medico empatico e guida della protagonista nel percorso terapeutico. Celeste Holm (Grace) e Glenn Langan (Dr. Gifford) completano il quadro dell’ospedale, dando spessore alle relazioni e al contesto della vita in reparto.

Il titolo trae origine da un’antica leggenda secondo cui esporre un malato di mente a una fossa piena di serpenti – che avrebbe fatto impazzire chi era sano – avrebbe potuto guarirlo. Nel film, questa idea diventa simbolica: la Ward?33 e l’ospedale stesso assumono il ruolo di “fossa” in cui la mente viene messa alla prova, tra confusione, terapie e isolamento, restituendo una potente metafora della fragilità e della resistenza della psiche; i reparti più bassi, riservati ai pazienti considerati “senza speranza”, sono mostrati come veri gironi infernali, un abisso in cui le menti tornano a contorcersi, sottolineando visivamente il percorso doloroso di Virginia.

Il film incontrò la censura britannica, che temeva che il pubblico pensasse che le comparse fossero pazienti reali sfruttati, aggiungendo una prefazione chiarificatrice e tagliando oltre mille piedi di pellicola. Nonostante ciò, l’opera ottenne riconoscimenti prestigiosi: vinse l’Oscar per il miglior sonoro alla 20th Century Fox (Sound Department) e raccolse nomination per miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, migliore sceneggiatura non originale e miglior colonna sonora. Al Festival di Venezia 1949 la pellicola fu definita come “un’indagine audace e drammaticamente intensa di un caso clinico”.
Oltre al riconoscimento artistico, La fossa dei serpenti ebbe un impatto concreto sulla società americana: contribuì a sensibilizzare l’opinione pubblica e a promuovere riforme negli ospedali psichiatrici in diversi stati. Tra i protagonisti di questo cambiamento c’era Charles Schlaifler, un dirigente degli studi Fox incaricato delle pubbliche relazioni del film, che colse l’occasione per portare la questione della salute mentale all’attenzione del Congresso. Grazie al suo lavoro, riuscì a convincere i legislatori a stanziare maggiori fondi federali e a rafforzare il dibattito nazionale sulla condizione dei malati di mente, dimostrando come un film potesse avere effetti concreti anche sul piano politico e sociale.
Un film importante, scomodo e tutt’altro che datato. La fossa dei serpenti affronta il dolore con lucidità e dignità, senza mai scadere nella retorica. Litvak gira con rigore, de Havilland regge con grazia, e il risultato è un’opera che, pur imperfetta in certi passaggi narrativi, conserva un impatto umano e storico di rara forza.
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