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L'uomo di Alcatraz

Regia di John Frankenheimer vedi scheda film

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La recensione su L'uomo di Alcatraz

di Mr.Klein
8 stelle

Si può ottenere una forma di esclusiva libertà intellettuale anche durante l’interminabile permanenza in una cella,si può scegliere di isolare le conseguenze di una storia personale che ha crea un debito inestinguibile per vedere svilupparsi l’embrione di un’intelligenza superiore.
L’uomo di Alcatraz nella sua struttura rispetta le imposizioni dell’isolamento,la prigionia è una comprensibile condizione morale,e si muove tra questi due poli reiterando all’infinito i monotoni movimenti di un condannato:infatti,per i 150 minuti della durata noi assistiamo alla visione di un film come se contassimo i passi dell’assassino nel suo isolamento.
E’ vero che Frankenheimer sceglie una direzione che non gli è propria e si trova un po’ scomodo nel dirigere una storia vera che pretende qualche soprassalto autoriale,e per un terzo del film ci sembra che non accada nulla,che la trascrizione della vicenda di un uomo allora ancora esistente sia troppo placata da una fedeltà ai fatti più consona alle esigenze di un documentario che non dell’espressione cinematografica che bene o male pretende il rischio di una netta distinzione di caratteri.
Ciò che in un primo momento suscita anche fastidio col procedere del film diventa un valore aggiunto,se non il merito maggiore del film.
Realizzato sotto il segno di un sofferto silenzio imposto ma fertile,in un clima di umiliazione che le regole sociali,condivisibili o meno che siano,presentano come la giusta conseguenza di una colpa,il film segue passo passo lo sviluppo improvviso del seme di quella genialità che non fiorisce per un’ispirazione coltivata ma si definisce e matura solo nello sforzo e nel dolore dell’applicazione,imprevedibile compagna che sceglie il suo eletto,e che viene legittimata non dalle circonlocuzioni intellettuali di chi si affida alle scoperte di un pensiero inefficace,ma dalla crescita che si trova solo nelle azioni,nella concreta prova delle proprie facoltà:si è ciò che si fa,e lo si può sapere senza che questa genialità venga in alcun modo annunciata da un evento del passato.
La riuscita del film sta anche nell’azzeramento della distinzione manichea dei personaggi,non ci sono buoni né cattivi,e non viene formulato alcun giudizio sulla loro personalità;se un giudizio c’è,è rivolto al sistema in sé stesso,alla gigantesca macchinazione che in questo caso prende il nome di giustizia,che pretende di sapere chi e come giudicare,che riesce a sfruttare persino l’inaspettato affermarsi della personalità di un detenuto,in termini ovviamente economici,proprio perché,come s’è detto,non riesce ad immaginare la prepotenza dell’intelligenza all’erta proprio nel luogo deputato a renderla impraticabile.
Il racconto della rivincita acquisita per una sorta di onore personale restio a chiedere una consacrazione,che pure ottiene nel mondo dei “liberi”,non contempla,cosa rarissima nelle cinebiografie americane,l’esaltazione e l’agiografia,non contiene un’agnizione né propone alcuna assoluzione di Stroud,poiché l’assassino resterà un assassino,non verrà riconsiderato il suo gesto o rivisto seconda un’ottica consolatoria,perché ciò che interessa è la storia dell’uomo che segue,dell’uomo che si accorge di sé senza parlare direttamente si sé,di una sovrumana forza morale,della quale è capace spesso solo un colpevole,che afferma la potenza della speranza ma non insiste su nessuna redenzione:il punto di vista è laico e le poche cose vere avvengono tutte grazie ad un forza tellurica,non c’è uno sguardo rivolto al cielo,se non quando è abitato dagli amati pennuti.
Nell’incertezza che gli procura questa storia,Frankenheimer sceglie di prolungare le scene senza alcuna apparente soluzione drammaturgia,secondo un impianto teatrale che privilegia il dialogo,e lo si riconosce più chiaramente nella memorabile sequenza della tentata evasione dal penitenziario che,paradossalmente,nonostante sia l’unica vera scena d’azione del film,vede questa azione mortificata dalla veemenza riflessiva di Stroud che ribadisce l’infruttuosità di un’iniziativa violenta da parte di uomini confinati in un luogo che quella violenza la reclama e la pratica anche se con un principio diverso,e diventa uno dei momenti di più sconsolata commozione di tutto il film,galvanizzando la parte forse più retorica e prolissa del film.
A fare la differenza,nonostante qualche momento di stanchezza,c’è,è un dovere ribadirlo,un reparto attoriale in cui nessuno stona.

Su Betty Field

Il personaggio più convenzionale,come accade quasi sempre agli emissari della speranza,reso dolce da un viso che chiede ciò il suo compagno ignora di saper dire.

Su Thelma Ritter

Una delle rare occasioni in cui la Ritter non ha giocato sul registro di una schietta simpatia,riuscendo senza un materiale originale a distanziarsi dal ruolo più classico della madre. Forse appare perplessa,più ingabbiata rispetto ad altri ruoli,ma ha la forza di un’immagine cautamente cattiva che non ha conosciuto una giovinezza.

Su Karl Malden

Un capolavoro di sottrazione,di immaginazione risentita e di umanità goffa e logorata dai pregiudizi

Su Burt Lancaster

Con un faccia che non è simpatica e non vuole esserlo,Lancaster si dedica ad un’evasione dall’istrionismo più greve e,anche se è impossibile che non se ne compiaccia un po’,si aggira come un assassino in preda ai dubbi intorno al suo uomo,deponendo le armi che non siano quelle di un’intelligenza tanto più viva quanto più sorpresa da sé stessa.

Su John Frankenheimer

Evidentemente non a suo completo agio,Frankeinheimer preferisce registrare,tallonare ogni singola azione per incorniciare un personaggio che si presenta da sé,e abbandona un’azione esplicita per descriverne un’altra,tutta interiore.

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