Regia di George Pal vedi scheda film
George Pal (“La macchina del tempo”), con “I sette volti del Dr. Lao”, si avventura in una commedia fantasy, che, pur rimasta in ombra rispetto ai suoi titoli più noti, rivela delle suggestioni difficilmente riducibili a un’unica chiave di lettura. Tony Randall si esibisce camaleonticamente incarnando diversi soggetti: dal cieco indovino ad Apollonio, da Pan a Merlino, fino alla terribile Medusa. Un esercizio di metamorfosi degno dei grandi trasformisti. Randall dimostra una padronanza sbalorditiva, modulando voce, accento e gestualità, mentre il make-up da Oscar di William Tuttle e gli effetti speciali di Jim Danforth ne impreziosiscono ulteriormente il mutamento. Se qualcuno ha bollato la sua performance “corriva” o addirittura “improba” per via della caratterizzazione etnica, è più corretto riconoscerne l’intenzione parodica e sovversiva: Lao non è una caricatura, ma una maschera che suggerisce una società corrotta. La cittadina di Abalone, e gli abitanti divisi fra speranza e sgomenti, appagliono come una comunità in bilico. In questo contesto diventano un microcosmo di vizi e virtù: da un lato l’èthos condiscendente di chi accetta senza reagire l’ascesa di Clint Stark (il “mefitico” Arthur O'Connell, nel ruolo di un magnate terriero simbolo di un capitalismo predatorio e inemendabile), dall’altro i pochi capaci di identificarne le turpitudini. Il circo funziona da “specchio”. L'anziano cinese dalle molteplici facce, lungi dall’essere un semplice trucco teatrale, è un archetipo delatore di paure ed emozioni represse. In questa rammentante polisemia, la sceneggiatura di Charles Beaumont, tratta dal romanzo di Charles G. Finney, alterna momenti di sorprendente intensità. Se la cornice western può sembrare schematica nella sua essenzialità, il cuore del racconto non è banale: qui l’immaginazione funge da confronto tra le irrazionalità individuali, nell’amalgama di continue incertezze. Pal orchestra il tutto tramite una leggerezza solo apparente. Gli inserti in stop-motion (pur modesti, hanno una qualità artigianale adeguata all’atmosfera fiabesca), la calda colonna di Leigh Harline e il tono inquieto tessono l’estetica ove risiede la profondità del film: non è solo un’evasione dal reale, bensì una meditazione attraverso la lente di un miraggio proteiforme. Ergo, oltre a intrattenere, l’opera interroga lo spettatore e lascia la sensazione che il nostro pianeta, pur segnato da ombre, sia ancora degno di venerazione. La misteriosa carovana agisce da catalizzatore, costringendo ciascuno a misurarsi con le proprie contraddizioni intime. Lo vediamo nel piccolo Mike Benedict (Kevin Tate), il quale restituisce spontaneamente lo sguardo incantato e puro dell’infanzia. In Ed Cunningham (John Ericson), un giornalista idealista ed esitante dalla concreta credibilità nel suo percorso di crescita morale. Angela Benedict (Barbara Eden), invece, nelle vesti di una vedova decantata, congiunge malinconia e voglia di rinascita, ritrovando il coraggio di aprirsi al futuro.
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