Ozzy Osbourne è morto, è morto di malattia, circondato dall’affetto dei suoi cari, a 77 anni (li avrebbe compiuti il 3 dicembre 2025, lo stesso giorno di Jean-Luc Godard, non gli si può negare il diabolico e magico 77 per puro calcolo!). Ozzy non è morto di overdose, né in un incidente catastrofico o in un rituale satanico, è morto come un povero diavolo qualsiasi, come uno della “sua gente”, le classi disagiate da cui proveniva e per cui ha creato musica. Perché Ozzy ha incantato con il disagio, lo ha incarnato, se n’è fatto strumento e ne è divenuto icona. Ozzy non è Nick Cave, non ha sublimato il male di vivere, per questo rimarrà per sempre indigeribile ai “giovani creativi”, non è un King Ink ma un Prince of Darkness, un principe che il suo potere l’ha dissipato, che non ha sacrificato la sua vita sull’altare del rock‘n’roll ma l’ha sprecata, perché alla fine non ha senso. È questo non senso il messaggio “satanico”, urlare e vomitare l’insostenibile pesantezza del vivere, il terrore della società del ben(esser)e fondata su scuola-lavoro-carcere, tre volti della paura che aveva sperimentato, con profondo disagio, fin dall’infanzia.

Ozzy non è Vasco, la vita spericolata non l’ha voluta, l’ha fatta e l’ha fatta propria, senza logos, nessuna teoria né riflessioni, ma solo atti, come una macchina attoriale beniana, agìto e agitato da una forza oscura, una disperata e paranoica vitalità. È questo agire istintivo, senza fini, questa impossibilità di essere altro da sé, lo spreco (i credenti lo chiamano sacrificio) che fa di Ozzy (con Lemmy Kilmister!) il corpo del rock, l’ostia indigeribile e inspiegabile. Un corpo esibito dall’adolescenza al funerale, una vita, da un certo punto in poi, messa in scienza magistralmente, sfruttando un fiuto bestiale per le meccaniche della società spettacolare. La leggenda dei Black Sabbath di Paranoid e Iron Man, poi gli anni 80, No More Tears che segna la “rinascita” dei Nineties, con le giovani band che gli tributano altari. «I don’t want to change the world, I don’t want the world to change me»: il reality per MTV The Osbournes (quattro stagioni tra il 2002 e il 2005) consegna a un’intera generazione l’immagine di un arzillo cinquantenne rincoglionito da una vita di eccessi, in sostanza la televisione che indaga l’interno della cavità orale di Ozzy, assumendo il punto di vista del celeberrimo pipistrello decapitato a morsi sul palco durante un concerto nel 1982.

Ma Osbourne aveva ancora almeno altre due vite da vivere, come un gatto (nero): la reunion dei Sabbath e il ruolo virtuale di “guardiano del metal” nel videogame di culto Brutal Legend del 2009. Ha ragione Jack Black (che del gioco è protagonista) quando dice che sono così fucking lucky i tredicenni di oggi che possono «rimanere svegli tutta la notte e lasciarsi travolgere dall’intero catalogo di Ozzy Osbourne per la prima volta». «The road to nowhere leads to me »: l’incredibile evento di commiato, in pratica l’ultimo Ozzfest, che lo scorso 5 luglio i Black Sabbath hanno organizzato nella loro Birmingham chiamando a raccolta gente come Mastodon, Anthrax, Lamb of God, Pantera, Tool, Slayer, Metallica, trasmesso in streaming con gli incassi altissimi devoluti alla Cure Parkinson’s, è un’altra veglia papale come quelle che hanno accompagnato questo 2025, e di cui già abbiamo scritto (vedi Film Tv n. 22/2025). Seduto sul suo trono oscuro, Ozzy ha intonato War Pigs per l’ultima volta non come un addio, ma come un sermone, un angelus, ancora e per sempre l’omelia catatonica dei nostri tempi.
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