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Elephant Song

Regia di Charles Binamé vedi scheda film

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La recensione su Elephant Song

di alan smithee
5 stelle

Una sparizione ingiustificata. Un ragazzo problematico ed instabile che potrebbe sapere…o inventarsi tutto. Verità e menzogna, gioco perverso e testimonianza fondamentale si intrecciano in una indagine che si vorrebbe serrata ed incalzante, ma che rimane vittima di una regia troppo scolastica e priva di verve.

Alla vigilia di Natale, presso una casa la cura che dirige, il Dottor Lawrence si dilegua senza avvisare nessuno, e lasciando interdetti e preoccupati alcuni stretti colleghi e parte del personale infermieristico più affiatato. Per cercare di non creare falsi allarmismi, ed evitare che la notizia si sparga inutilmente fomentando cattiva pubblicità ad un istituto che in passato fu al centro di polemiche e notizie contraddittorie, un altro medico, il Dott. Green, decide di indagare per conto proprio, sulle strane circostanze della sparizione.

Venuto a conoscenza dalla caposala, ex moglie dello scomparso, che l’ultimo paziente ad aver visto il medico è un giovane di cui ella si cura, il controverso Michael, il nostro uomo decide di conoscerlo e di interrogarlo per cercare di trovare indizi concreti su una sparizione che inquieta e lascia perplessi man mano che il tempo trascorre senza novità o accadimenti.

Il medico tuttavia non sa, o non valuta in modo sufficientemente concreto le raccomandazioni ricevute dall’infermiera, circa la tendenza che ha il ragazzo di giocare con l’immaginazione, con la ben riposta, talvolta ingenua o in buona fede credulità altrui, raccontando con a chi lo ascolta, storie sempre al limite tra il fantastico e il possibile.

Sarà compito del dottore assecondare il ragazzo al fine di farlo parlare, valutando ciò che può essere ritenuto vero, e cosa invece fa parte di un mondo che, scientemente, irrazionalmente o maliziosamente, egli vede e trasforma come reale, ma si rivela frutto di una fantasia elaborata al centro della quale il ragazzo pone uno tra i mammiferi più imponenti e tenaci viventi sulla terra: l’elefante.

Un gioco sottile, perverso e tendenzioso lungo il quale emergono indizi e verità che, se provate, esporrebbero a responsabilità devastanti il capo della struttura psichiatrica.

Diretto con calligrafica meticolosità da un regista noto soprattutto in terra canadese, ma con un curriculum internazionale che vanta già ben 8 film all’attivo, il film di Charles Binamé regala al regista più giovane e talentuoso del cinema canadese, uno Xavier Dolan dallo sguardo ugualmente dolce e malizioso, un ruolo chiave che non si discosta troppo da certi suoi precedenti personaggi turbati e devastati interiormente.

Infatti Dolan è perfetto per ricoprire il ruolo del giovane folle, internato nella struttura dopo aver causato la morte della madre per una deliberata crudele omissione di soccorso.

E se il cast che lo attornia è composto da attori noti e lodevoli (Greenwood, Keener, Carrie Ann-Moss preziosa, visto che vediamo sempre più di rado, qui impegnata in un ruolo decisamente di contorno, e un Colm Feore perfetto e nuovamente coinvolto in uno dei molti ruoli controversi ed indecifrabili della propria carriera), e l’ambientazione ospedaliera risulta accurata ed efficacemente ovattata, se non proprio soffocante, è pur vero che la regia appare nel suo complesso un po’ inerte, incapace di rendere giustizia ad una materia (di provenienza teatrale) che trattiene entro di sé i presupposti e gli spunti per potersi trasporre in un thriller tutto attese, colpi di scena, ribaltamenti di posizioni: eventi e circostanze che, al contrario, in questo trattenuto adattamento non paiono risaltare, né tantomeno manifestarsi al punto da destare lo spettatore da un torpore di fondo che attanaglia la vicenda anziché avvincere.

Certo poi alcune verità vengono a galla, alcune soluzioni si rivelano decisamente più naturali delle ipotesi formulate durante l’indagine, mettendo in luce verità decisamente meno eclatanti, ma più scomode, perverse, intollerabili.

Ma il film, come thriller, genere al quale era giusto ambire, difetta di ritmo, di suspence, di capacità di sorprendere. Binamé appare sin troppo mortalmente discreto, sotto tono, delicato, quando il film necessitava colpi di scena forti, magari anche barocchi, di calore e vivacità, anche senza pretendere di poter anche solo minimante pensare di trovarci sotto l’effetto distorto, psichedelico ed allucinato di un giallo di De Palma.

 

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