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I sogni segreti di Walter Mitty

Regia di Ben Stiller vedi scheda film

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La recensione su I sogni segreti di Walter Mitty

di alan smithee
4 stelle

Il sogno ad occhi aperti, benché più consapevole e meno barocco od avveniristico di quello ancor più fantasioso ed estremo coltivato durante il sonno, offre, a chi sa rifugiarvisi, la possibilità di trovare conforto, sicurezza in quei piccoli, edificanti attimi di piacere e soddisfazione che l’ordinaria esistenza quotidiana e' cosi' avara nel regalarci. Per questo il mite Walter Mitty trova in questa forma di “incanto” e di estraniamento consapevole, la via ideale per fuggire dalla sgradevolezza delle situazioni, lavorative e non, che affliggono lui come la maggior parte di noi oggigiorno. Impiegato come photo designer presso una famosa rivista in corso di ristrutturazione per tagli, Walter sarà costretto a sfoderare la destrezza che lo contraddistingue solo nel mondo dei sogni per riuscire a recuperare un negativo di foto preziosissimo scattato dal guru di tutti i fotografi, pressoché irraggiungibile ed impegnato tra Groenlandia ed Islanda a fermare, almeno per un istante, e rendere espliciti per tutti, quegli attimi di meraviglia che solo madre natura riesce a regalarci. Quando Ben Stiller si impegna anche nella regia (e qui lo vediamo coinvolto anche come produttore, oltre che come interprete protagonista), raramente il film risulta inerte o scialbo. Inoltre i riferimenti e gli accostamenti a Forrest Gump tirati fuori da media e riviste specializzate non sono affatto avventati, anche se qui la tematica del “medio-man” alle prese con situazioni più grandi di lui è resa più complessa (ed in qualche modo più affascinante) dall’antitesi che può esistere ed esiste troppo spesso tra l’esperienza concreta e quella immaginaria. Walter Mitty è un film girato bene, quasi quanto il Forrest Gump già citato, e forse ad oggi l’opera più ambiziosa tra tutte quelle - mai banali- del Ben Stiller regista. Tuttavia, proprio come accade a mio avviso al film di Zemeckis, Mitty appare inopportunamente e smodatamente invischiato di quella insopportabile retorica tutta americana legata al sogno idealizzato che si realizza e diviene realtà, del piccolo uomo (onesto e mite, deriso o ignorato) che, in stato di necessità, sfodera doti e risorse non preventivate o preventivabili, dell’americano medio leale e sfortunato che riesce a fare di necessità virtù, convincendoci (o provandoci comunque) che può considerarsi come un happy end in grado di farci uscire dalla sala commossi e contenti, quello di far affrontare al summenzionato un licenziamento in tronco in cambio di una copertina eroica in grado di ristabilire dignità ed onore a chi si credeva un perdente, e alla faccia del solito manager arrogante (ricondotto qui ad una macchietta logora e davvero inaccettabile). Per il resto bellissime inquadrature di paesaggi mozzafiato in una natura ancora incontaminata e padrona, ed un Sean Penn-guru dell’attimo fuggente che spesso rinnega e rinuncia allo scatto per trattenere per sé (e solo per sé) l’emozione dell’immagine unica che non potrà ripetersi, non riescono ad avere la potenza per convincerci della riuscita di un film crudelmente soffocato dal buonismo e dall’incontenibile dolciastra smania di happy end che ci riporta inevitabilmente nel mondo dei sogni; quei sogni che tutti vorremmo si avverassero, ci mancherebbe altro, ma che nella realtà dei fatti rimangono pure ed evanescenti chimere, in barba al mito americano immarcescibile e sempre irriducibilmente entusiasta.

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