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Yema

Regia di Djamila Sahraoui vedi scheda film

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La recensione su Yema

di OGM
8 stelle

Venezia 2012 – Orizzonti. Yema significa madre. Ci sono tanti modi per meritare quel nome, anche quando tutto sembra perduto. Una donna resiste, e continua ad essere fertile, nonostante l’età, la miseria e la guerra fratricida che insanguina il suo Paese, l’Algeria, e che divide anche i suoi due figli: Tarek, ufficiale dell’esercito regolare, ed Ali, guerrigliero jihadista. Il primo è morto durante un attentato terroristico. Nella prima scena lei lo seppellisce. Secondo la legge islamica non potrebbe farlo, perché quello è un lavoro da uomini. Ma quella donna è sola, e può contare solo sulle proprie forze. Soprattutto quando dissoda, semina e irriga un suolo arido e sabbioso, per far crescere le verdure di cui cibarsi. Coltiva e raccoglie i frutti, che sono le conquiste di una battaglia aspra, combattuta con le mani nude. Deciderà di allevare il nipote, il bambino di Ali, la cui moglie è morta di parto. E intanto diventerà madre anche di quel giovane ribelle col braccio mozzato che è stato messo di guardia davanti alla sua porta, per controllare i suoi movimenti. Il mondo di Yema è ristretto, ed è un concentrato di amore nato dalla sofferenza. In mezzo a quella campagna montuosa e semideserta è forse rimasta solo lei a credere pacificamente nel domani, senza aggrapparsi alle utopie violente della rivoluzione. Sulla tomba di Tarek pianta un alberello sradicato dal suo piccolo terreno.  Con la stoffa di un suo vestito ricava una coperta per il bambino. Guarda avanti con un’espressione ferma e severa, e intanto tace, concentrandosi sul pensiero di ciò che sarà. La solarità polverosa di questo film – la cui regista, Djamila Sahraoui, è anche l’interprete principale – racchiude l’essenza ruvida di un’energia logorata dal tempo, però intatta nella dirittura morale. In quel corpo minuto e fibroso, i principi formano un sedimento duro che non conosce incertezze, separando di netto il bene dal male, il passato dal presente, la verità dalla menzogna. In quanto madre, Yema sa che il suo dovere è curare ed educare la prole. Una mansione che, all’occorrenza,  prevede anche il ricorso al rimprovero ed alla punizione: gli unici mezzi che sia possibile adoperare con uno come Ali, che sta dalla parte degli assassini di Tarek, e, dopo averlo ucciso, gli ha persino preso la moglie. Tutta la terra circostante reca impresso il rozzo marchio della lotta per la sopravvivenza, di quel mors tua, vita mea che porta a contendersi l’acqua del pozzo, e trasforma una ciotola di latte di capra o una tazza di caffè in un dono prezioso. Tutto è dispensato con parsimonia, come le parole, le domande, le risposte. Yema sa quello che la vita le insegnato, e non ha bisogno di mettersi a parlare, per difendere le proprie idee. Ha una religione tutta sua, in cui non esistono precetti divini, perché è fondata su una visione interamente umana, che giudica a partire dai fatti, e passando attraverso il cuore.   Al culto del ricordo si mescola, in lei, la volontà di ricominciare daccapo, senza dimenticare ciò che ha offeso la sua carne, e non può essere lasciato senza conseguenze. Tarek è il figlio da serbare nella memoria, conservando le sue tracce terrene. Ali è invece il figlio che ha perso la strada, che continua a sbagliare per presunzione ed egoismo, e per questo va castigato. Yema possiede una fede incrollabile nel suo ruolo, che le circostanze hanno reso estremamente difficile. Madri forse si nasce, forse si diventa, ma, per esserlo davvero,  bisogna avere la forza e il coraggio di restarlo per sempre.

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