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I tre spietati

Regia di Joaquín Luis Romero Marchent vedi scheda film

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La recensione su I tre spietati

di scapigliato
8 stelle

Siamo nel 1963 a.L. (avanti Leone, scusate il paganesimo). Il western che si faceva in quei tempi e da quelle parti, era chiamato eurowestern perchè seppur riprendeva in pieno la lezione classica americana, aveva una sua precisa anima europea facilmente individuabile. Nel caso di Joaquín Luis Romero Marchent e di questo “I Tre Spietati” si può parlare di vera e propria hispanidad, per citare Federico De Zigno: la drammaticità del fato, la nobiltà di carattere dei personaggi positivi contro il fatalismo de negativi. Io aggiungerei anche che l’hispanidad di Marchent, e di molti altri western italo-spagnoli, è individuabile anche nel gesto. L’estica della violenza, di cui Marchent sarà uno degli evocatori più rappresentativi con “Condenados a Vivir”, a detta di Antonio Bruschini il più raccapricciante e violento western all’italiana, nasce da radici culturali precise. Non solo l’ambiente rurale, fatto di terra e animali, caldo, ritmi e superstizioni ancestrali, ma anche la cultura fatalista e passionale di certi luoghi. Una carnalità, una fisicità, una corporalità, un’avvertibilità e io direi una captabilità, una sensorialità dei corpi e della vita in tutte le sue forme tangibili, che caratterizza i paesi meridionali come Spagna e Italia. Captare il corpo, attribuirgli un peso, un valore, un prezzo, è un procedimento fisico tout court, che mette in gioco e al centro della riflessione fisica il corpo e nient’altro. I New Horror americani degli anni ’80 avevano in questo senso affondato il bisturi e creato una vera e propria estetica dello smembramento e della corruzione del corpo e della carne. Nel ’63 di Marchent i tempi non sono ancora maturi per una riflessione così spietata, ma il discorso tocca comunque corde secolari, che nascono con la nascita di un luogo, di una terra, di un popolo con la sua cultura e i suoi legami metafisici e puramente fisici con l’intorno, la natura, le bestie e la bestialità. Tant’è che proprio un autore spagnolo, uno dei più grandi del Novecento e di tutte le lettere spagnole e io direi anche mondiali, ovvero Camilo José Cela scrisse nel 1949 “La Familia di Pascual Duarte”. Senza fermarsi troppo sull’analisi di un libro che ha dozzine di elementi su cui discorrere, va evidenziato il legame del protagonista Duarte con la sua madre terra, che fa il paio con la madre naturale anche lei castratrice e oppressiva. Istinti animaleschi e una fatalità incontrollabile si ritrovano anche nell’hispanidad più emblematica e più estrema della cinematografia spagnola (vedi Jesús Franco) e italiana (vedi tutti i western sadici, gli horror, i mondo movie, i cannibal movie, i polizieschi efferati).
Ecco che “I Tre Spietati”, il cui titolo originale esemplifica meglio il film stesso, ossia “El Sabor de la Venganza” (per gli anglofoni puri sarebbe “Il Sapore della Vendetta”), è un film che cova tra i purismi e i classicismi della tradizione americana e della celebre estetica morigerata del western, un vero e proprio impeto verso la crudeltà. Crudeltà avvisabile nei banditi che pestano il bambino, nell’odio perpetuo della madre, nella follia omicida di Claudio Undari, nel sadico assassinio di José Manuel Martín da parte di Undari (scena straordinaria!), e via così fino alla capitolazione finale ritratta nella suggestiva cornice delle dunas del Cabo de Gata, con un grandissimo, immenso Lus Induni di Romano Cavanese (TO), in una delle rare volte da cattivo duro e puro, contro lo spietato Claudio Undari, attore feticcio di Marchent (i due gireranno insieme 5 film). Ma tutto il flm è incasellato nel paesaggio superbo dell’Almeria, di cui Marchent stesso si dice essere stato tra i primi scopritori dell’Almeria come set naturale. Inquadrature mozzafiato, come quelle ariose al ranch dei Walker; pose evocative, come i piani totali che fotografano i personaggi nella loro durezza e sullo sfondo dune, pietraia, deserti vari o le case bianche del paesino messicano. Un film-evocazione unico, che affronta il discorso tra legalità e giustizionalismo: quale dei due serve davvero ad un terra di questo tipo, a volte pure dimenticata da Dio? Il legalitario Richard Harrison, uno dei tre fratelli che cercano l’assassino del padre (appunto Luis Induni), crede nella legge, forse anche troppo, incapace di capire e distinguere il bisogno di giustizia dal linciaggio: il primo non è annoverato nei codici penali, appartiene all’uomo e al suo onore, alla sua etica e purtroppo non tanto alla sua intelligenza. Il secondo è l’espressoine violenta dell’ignoranza di un paese che vuole essere forte, integro, democratico, ma che in realtà è la parodia di un deserto di serpi (l’America machista). Claudio Undari è il fratello violento, che crede nella vendetta. Non si può dire che lo spettatore non stia un po’ dalla sua parte, soprattutto verso il finale. Del terzo fratello si sa ben poco. L’attore è Miguel Palenzuela, al suo secondo dei quattro western girati. E’ il più equilibrato dei tre fratelli. Ma la verità non sta nel mezzo, la storia ormai ce l’ha insegnato. Purtroppo il film di Marchent non dà un commento personale a questa mai sopita discussione tra legalità e giustizionalismo, si ferma solo ad una loro rappresentazione evocativa, che non è poco. Soprattutto nella scena finale, quando la madre piange sul cadavere di Undari nella vastità della loro vallata deserta. Ci sono molte più evocazioni in un’inquadratura che in tutti i libri e codici penali del mondo.

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