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Il sol dell'avvenire

Regia di Nanni Moretti vedi scheda film

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La recensione su Il sol dell'avvenire

di barabbovich
8 stelle

Dopo il passo falso di Tre piani, deve averla sentita, Nanni Moretti, quell'invocazione a gran voce del suo pubblico, che tuonava al grido di "aridatace Michele Apicella". Con Il sol dell'avvenire, il regista romano spezza un incantesimo che - tolto qualche frammento di morettismo elargito con eccessiva parsimonia qua e là - durava dai tempi di Aprile (stesso mese di uscita di questo film, ma lì correva l'anno di grazia 1998). E lo fa non ripresentandosi neppure sotto le mentite spoglie del suo alter ego, ma giocando la carta del film-terapia che, con sincerità cristallina, gli fa incarnare proprio Giovanni, come da dato anagrafico. Il sol dell'avvenire è la summa del Moretti-pensiero, è un film-confessione - estremamente autoironico - nel quale ci sono tutti i topoi del suo cinema e del suo essere nel mondo: la politica, innanzitutto, ma anche la puntigliosità del regista, le scarpe come spia dell'essere, il nuoto, la critica cinematografica, il dolore mai sopito per la morte della madre, il divorzio, la psicanalisi e tanto altro ancora.
Aperto da una sequenza magistrale (il titolo del film viene scritto da un imbianchino acrobata calandosi su uno dei bastioni del Tevere), il film di Moretti è un 8 e ½ raddoppiato (numericamente e metaforicamente) che si muove su due piani narrativi: quello del regista che sta girando un film sull'invasione dell'Ungheria da parte dei carri armati sovietici, nel 1956 (mentre pensa di girarne un altro tratto da Il nuotatore di Cheever), e quello sulle vicende personali dello stesso regista. Il primo rivolo narrativo vede al centro Ennio (Silvio Orlando), segretario di una sezione periferica romana del partito comunista, troppo legato alla linea di Togliatti, incapace di cogliere l'occasione per rompere con il PCUS e far sì che il PCI possa diventare una grande forza socialdemocratica occidentale. Sull'altra traiettoria narrativa c'è la vita quotidiana del regista, sposato da quarant'anni con la donna (Buy) che ha prodotto tutti i suoi film e che - senza che lui lo sappia - frequenta da qualche mese uno psicanalista (Celio) per trovare la forza per lasciarlo. Ed è qui che ci viene regalato un florilegio di citazioni e autocitazioni, di autoanalisi e vezzi del cinema dell'attore/regista romano, che calca moltissimo su una recitazione inautentica, volutamente rallentata, scandita nelle parole ("le parole sono importanti!"), che crea un effetto quasi straniante, come a voler fare la parodia di sé stesso. Al morettologo incallito viene offerto un tripudio di dejà vu delle opere precedenti del regista di Ecce bombo: l'ossessione per le scarpe come in Bianca; la piscina e il nome del circo che ha fatto sosta nel luogo dove si svolge l'azione del film di Palombella rossa (Budavari era il nome del temibilissimo pallanuotista Imre Budavari); le canzoni eseguite in maniera grottescamente stonata nell'abitacolo dell'automobile, come in molte sue opere precedenti; il giro in monopattino a piazza Mazzini ("perché in tutti i miei film devo mettere almeno una scena girata nel quartiere Mazzini"), l'amore per i dolci (come, tra gli altri, ne La messa è finita), il palleggio solitario come nel primo episodio di Caro diario. Né mancano le osservazioni sul cinema, come nella scena in cui la memoria corre al critico svegliato in piena notte ancora in Caro diario, reo di avere scritto l'elegia di Henry pioggia di sangue. Qui Nanni - ed è lo Zenith di un film dalle mille trovate - vira sulla forma saggio, spiegandoci quanto brutto, ripetitivo e artificiale sia diventato il cinema d'azione nella sua bolsa rappresentazione della violenza. E lo fa chiamando in causa Breve film sull'uccidere, di Kieslowski, e avvalendosi di due preziosi camei esplicativi come quelli di Renzo Piano e Corrado Augias. In questo meta-film, le riflessioni sul cinema mandano anche sacrosante bordate a Netflix, in uno scambio tutto giocato sui numeri e sulla mancanza dell'effetto sorpresa decretato dal what-the-fuck imperante.
Il sol dell'avvenire è un film testamento (cosa potrebbe fare, dopo, Moretti, ora che - nella parata felliniana da brividi del corteo finale ai fori imperiali - ha radunato i sodali di tutti i suoi film precedenti e raccontato sé stesso con così disarmante schiettezza?), ma è anche un film-farfalla, capace di dire tantissimo e con un'intelligenza spiazzante in soli 77 minuti, nei quali riesce a dipanare con leggerezza i temi del rapporto di coppia, del senso dell'esistenza, della morte, con un'opera-epitaffio dove si colgono ancora, vivide, la sua insofferenza al mondo, l'iconoclastia corrosiva, la voglia di esserci ma anche quella di non esserci (a cui fanno da specchio due sottofinali cambiati: quello della Storia e quello del protagonista alter-ego del suo film), come se Il sol dell'avvenire dovesse accollarsi l'onere di essere una versione senile di Sogni d'oro. Appena uscito in sala, è già un film-culto. Da 8 e mezzo.

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