
Due giorni fa il presidente dell’Ucraina Zelensky, in video collegamento con il Congresso degli Stati Uniti, ha fatto una mossa a sorpresa. Gli ha fatto vedere un film. Non uso la parola a sproposito: era proprio un film. Un cortometraggio, realizzato con immagini della guerra in corso in Ucraina. Non so se è una cosa che visto solo io, ma il montaggio di quelle immagini durissime ricalcava con notevole precisione l’inizio di un film di Frank Capra, Preludio alla guerra, girato nel 1942 e premiato con l’Oscar al miglior documentario nel 1943.
Il film era stato commissionato a Capra dall’Office of War Information americano ed era il primo di una serie chiamata Why We Fight. Erano film di propaganda che avevano lo scopo di informare e motivare i soldati americani in partenza per la guerra. “Perché combattiamo?” era la domanda retorica posta ai Jim del Texas, ai George del Massachusetts, ai Bob del Nevada. “Perché vi stiamo mandando a morire in Europa?” era invece la domanda sottotesto, non detta. La risposta immediata era una carrellata di immagini della nazioni europee coinvolte nel conflitto e opposte alla furia tedesca: varie scene di bombardamenti in studiato ordine. Il primo era quello di Pearl Harbor, ovviamente. Poi l’Inghilterra, la Francia, la Cina, e via così. Lo potete verificare da voi, è su YouTube
Il video mostrato da Zelensky ha fatto un percorso simile, mostrando le varie città ucraine sotto attacco: nomi oggi già famosi che però prima non conosceva praticamente nessuno e che quindi - qui una licenza discutibile della regia - dovevano essere mostrati prima brevemente come erano quando tutto “andava bene”, affinché il pubblico potesse meglio empatizzare con la loro sorte. Il film ci mostra quindi prima brevemente una carrellata di immagini solari, spensierate: città in fiore, bambini e famiglie, con i nomi dei vari luoghi in sottopancia. Poi l’orrore.
Le immagini che osserviamo ogni giorno in tv e nella rete si sono trasformate in quel momento, davanti al Congresso degli Stati Uniti, in materiale filmico: in un racconto. E ogni racconto non è mai indifferente: c’è sempre un soggetto narrante. Alcune terribili scene le avevo già viste e di colpo sotto i miei occhi erano altro: basta un po’ di musica di violino sullo sfondo, un montaggio serrato e il reportage diventa qualcos’altro.
Non biasimo l’operazione. Zelensky è in tour per la sua causa - che è anche la nostra: far cessare questa guerra, difendere il popolo ucraino - e usa gli strumenti che ha. Poi quelle scene non sono inventate, non sono state girate negli studios: sono scene vere, reali. A modo loro, anche se trattate, dicono la verità. Dicono la loro parziale verità, ognuna un pezzettino. E al tempo stesso dicono la loro parziale bugia, perché sono e restano sempre immagini.
“Io non so come è la realtà. Ci sfugge, mente di continuo… Io diffido sempre di ciò che vedo, di ciò che un’immagine ci mostra, perché immagino ciò che c’è al di là, e ciò che c’è dietro un’immagine non si sa.” disse in un’intervista Antonioni (a questo proposito Blow up con la sua riflessione sull’immagine e sulla sua intrinseca violenza resta sempre un approdo stimolante).
Parafrasando Antonioni io posso dire che non so come è la guerra.
E per quanto oggi le immagini della guerra vera ci riempiano gli occhi e i telefonini (incredibile a questo proposito questa mappa che riporta sul territorio del conflitto tutto quello che proviene dai social), per quanto oggi la tecnologia sembri testimoniare ogni evento, costruendo un immaginario spazio di verità, siamo ben lontani da quel che ipotizzava Paul Valery dicendo che la diffusione delle nuove tecnologie avrebbe permesso di “trasportare o ricostituire in ogni luogo il sistema di sensazioni – o più esattamente, il sistema di eccitazioni – provocato in un luogo qualsiasi da un oggetto o da un evento qualsiasi”. Questa “distribuzione della realtà sensibile a domicilio” non avviene certo con la guerra, che viene estetizzata (come diceva Benjamin) ma resta comunque a distanza, non percepibile nella sua reale portata.
Vedo l’uomo che guarda la strada assolata e apparentemente pacifica, vedo il colpo di mortaio che scoppia all’improvviso poco lontano, vedo la sua fuga, percepisco lo spavento. Che però non è non sarà mai il mio. Non lo stesso.
Si può credere o immaginare che un giorno un ipotetico occhio onniveggente registrerà - come una gigantesca telecamera di sorveglianza puntata sul mondo - un’intera guerra, nei dettagli. Ma non appena quel materiale verrà organizzato, scelto, messo in fila, arrangiato ecco che tornerà a essere un film. Perché siamo destinati - condannati, se volete - all’interpretazione.
Resta comunque che mai prima di oggi un conflitto ha avuto tanta esposizione mediatica (per quelli che hanno accesso ai media, ovviamente). Mai prima di ora un’intera popolazione ha registrato, grazie al semplice apparecchio che porta in tasca, così tanti frammenti di una guerra. Saranno comunque utili, lo sono già ora. E certamente offriranno un documento storico eccezionale.
C’è un documentario - passato nelle sale solo pochi mesi fa - che su questo riflette. È Guerra e pace, di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi. Una storia del rapporto amoroso (e feroce) tra il cinema e la guerra. Se ne avete modo vedetelo. Ma guardate anche - è su Netflix - un altro documentario: questo destinalmente, costituzionalmente, di parte. È Winter on Fire, sui fatti dell'Euromaidan. È realizzato quasi interamente con immagini riprese in prima persona dai protagonisti di quegli eventi: sembra quasi di assistere ai fatti mentre accadono.
Ma è un’illusione: le immagini ci portano vicini alla guerra, sempre più sull’orlo. Ma sempre la guerra si sottrae, si allontana. Anche se circondata, sfugge all’assedio dello sguardo.
Non saranno quelle immagini - per quanto poco adatte a un pubblico impressionabile - a permetterci davvero di conoscere la guerra. Esse indicano, alludono, ricordano, rappresentano un luogo che è un abisso dell'esperienza. Possono essere usate bene o male, possono anche essere abusate. Ma non ritraggono l'abisso, perché gli abissi non si lasciano ritrarre. E quando li guardi in faccia davvero, ormai sei tutt’uno con essi.


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