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Bergman al multisala
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Il bianco e nero non si addice ai multisala. L’azione deve essere colorata, le battute colorite, i dialoghi non hanno tempo di sedimentare, e la velocità è rossa o blu, mai grigia. Nei multisala si entra in orde disordinate (scordatevi Allen e la sua donna a discettare, in fila, sui massimi sistemi), ci si fa strada con le luci bieche dei telefonini (o si dice smartphone?), riposando le maschere negli echi lontani di una chanson de geste in foggia di immaginifica cianfrusaglia. Nei multisala si può mangiare, anche: benchè il concetto di picnic sia quanto di più lontano possibile dal richiesto minimo di concentrazione multitasking, i bar all’ingresso sono Paese dei Balocchi di astruserie glicemiche e cartoni da friggitoria. Chi non ce la fa a finire prima che parta il rombo della musica, stereoscopica, o le avvolgenti spire delle immagini, stroboscopiche, può consumare il resto all’interno, tra un avvinghiamento alla donzella accanto, una insistita ruminazione (ma esisterà un piercing alla mascella?), una twittata volante per comunicare al mondo che sta per iniziare un film. Multisala, multispecie, multitudini (i multisala non sono luogo da neologismi e licenze poetiche, questo sito sì). Melting pot di esseri umani e spiriti critici che, però, bandiscono per nascita e sviluppo ipervitaminico la lenta agonia dei movimenti decolorati. Ve la immaginate la tuta di uno Spiderman acromatico?

 

 

Non c’è posto per la nostalgia, nei multisala. Personaggi e snodi narrativi si rincorrono frenetici, in un delirio da autodafè che prepara il terreno vergine a nuove avventure ed eroi. Se sei fortunato ed agile puoi tentare, nel corso della medesima serata, di saltare da una sala all’altra, creandoti un personale pot-pourri di sbudellamenti e battutacce, salti nel vuoto e palpatine al culo. Panta rei: è cinema che replica la vita alla sua massima e vorticosa potenza, è intrigo e plot che si agita e si insinua, che può batterti dentro, bruciando e palpitando di esistenza propria, inesorabilmente breve. I film nei multisala sono le irriconoscibili metastasi di un sistema incapace di screening sul proprio effettivo stato di salute.

 

Chi è il proiezionista in una multisala? Una sorta di mostro di Lochness o, forse, soltanto un illuso cresciuto a pane e Lumière ed ora costretto a dare il la al flusso poco tantrico di un teatro per adoloscenti perenni. Oppure un uomo rassegnato e lungimirante, smarrito nella sua cabina, con o senza tappi alle orecchie, probabilmente con occhio vigile, distratto e assente al contempo. Un professionista, pagato per dare sollazzo alle masse in libera uscita di celluloide, serio, compunto e atarassico. E’ accaduto, o forse l’ho soltanto sognato e sono troppo diversamente giovane per ricordarlo, che un giorno un proiezionista sbagliasse a fare il suo lavoro. Buio in sala, il film va ad iniziare, gli ultimi popcorn friggono in cavi orali destinati al brillantino, un improvviso quasi silenzio squarcia il chiacchiericcio da gossip enciclopedico.

 

 

Appare un vecchio, con i baffi. Ha i capelli bianchi, o almeno così sembra perché il film pare non avere colore. E’ il primo sacrilegio che solleva una serie di “Ohh” di sorpresa ma soprattutto scherno. Ora c’è meno silenzio, il ticchettio nervoso delle patatine riprende vigore, le luci dei cellulari paiono impazzite all’unisono: qualcuno controlla la programmazione, altri twitta: “Siete degli stronzi incapaci”. Il vecchio è in un letto (dove volete che siano gli uomini di una certa età, fatti e finiti ed in preda alla paura della morte?), poco dopo compare un orologio senza lancette. “Ma in che epoca siamo? Cos’è questa presa per il culo?”; e molti si alzano sdegnati e se ne vanno, aggiustandosi la vita bassa di pantaloni già pronti al rilassamento da poltrona, mentre la sagoma minacciosa eppur ossuta di un dito medio sembra profilarsi in controluce sullo schermo, a sfiorare e profanare quel sogno e quel sonno. Il proiezionista prepara una lettera di dimissioni, raccatta i suoi poster (Casablanca, Fino all’ultimo respiro, Ladri di biciclette, ma anche Natale in India e Joan Lui, chiaro portato di una evoluzione darwinian-cinematografica in realtà molto prossima alla involuzione, ovvero allo scabro senso del dovere), però decide di rivederselo quel film, chè mica se lo ricordava poi troppo bene.

 

 

I pochi rimasti decidono di innamorarsi di una donna bionda (“Guarda, c’è una milf!”), anche perché i popcorn sono in via di estinzione ed è troppo presto per un refrigerante sonno, o troppo tardi per una fugace pennica. Eppure il livello di attenzione pare improvvisamente salire quando sullo schermo si materializza una donna ancor più anziana e, soprattutto, una coppia di ragazzi che prende a discutere con i protagonisti di Dio e della sua (im)probabile esistenza. Il vecchio deve essere una persona importante, un nonno sempre con il broncio ma dal cuore grande. Sono proprio quei giovani, con la loro impulsività, a dare di matto, a dividersi e riprendersi, ad odiarsi e ad amarsi, come se ogni giorno fosse l’ultimo e senza capire che la vita va assaporata a piccole dosi. In cabina di proiezione un uomo scuote la testa, perché immagina il suo di domani, non tenero, alla ricerca di un altro impiego, con referenze irrimediabilmente sporcate dalla introduzione del bianco e nero in un multisala, ossimoro che davvero può devastare una vita, altro che baruffe tra innamorati.

 

 

“Bravo, nonno! Ora ti danno un premio”. Il film in bianco e nero, tra sogno e realtà, degrada lentamente verso la fine. L’uomo anziano pare davvero un’altra persona, gentile e tenera. In sala qualcuno si ricorda le nenie dell’infanzia, l’amore incondizionato che lo ha fatto venir su e da cui, pur volendolo, è sempre difficile affrancarsi. Il proiezionista, ormai sfatto, decide di uscire dalla cabina. Invade la sala, alla ricerca di quegli ultimi sapori, di quegli afrori, quelle minuscole lucentezze che non rivedrà più. Accanto gli scorrono visi con acne e raggi UVA, mani levigate da giovani bene, gambe da gazzella e scarpe da mezzo stipendio. Gli pare di vedere una ragazza piangere, sommessamente ma senza vergogna. Saranno certamente le lenti a contatto, pensa.

 

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