Regia di Brian De Palma vedi scheda film
Carlito’s Way è un dramma malinconico e raffinato che evita i cliché gangster. De Palma dirige con classe e Pacino offre una prova intensa e misurata. Sceneggiatura solida e colonna sonora perfetta completano un film tragico e potente.
Carlito’s Way non è il classico gangster movie da gloria e pallottole: è il ritratto crepuscolare di un uomo che vuole mollare tutto, ma capisce che certi legami non si tagliano facilmente. Brian De Palma firma un noir raffinato, amaro, che parla più di destino che di crimine. Al Pacino torna a vestire i panni del criminale, ma qui interpreta un uomo più solitario e malinconico, in bilico tra redenzione e rovina, lontano dal peso dinastico dei suoi ruoli precedenti. Un ritorno a un certo tipo di cinema urbano e disperato che lo aveva reso iconico in Scarface, ma con una consapevolezza diversa, più matura.
Carlito Brigante (Al Pacino) esce di prigione con un solo obiettivo: lasciarsi alle spalle il passato criminale e costruirsi una vita onesta. In questo percorso si muove tra vecchi amici e conoscenti che ancora vivono nel mondo della malavita, come il suo ex braccio destro David Kleinfeld (Sean Penn), il quale rappresenta il legame con quel mondo da cui Carlito vorrebbe staccarsi. Lungo la strada incontra anche persone che incarnano la possibilità di una vita diversa, come Gail (Penelope Ann Miller), una donna che diventa simbolo della stabilità e del futuro che Carlito cerca di conquistare. Ogni passo fuori dal crimine diventa un equilibrio delicato: piccoli favori e vecchi legami mettono alla prova la sua volontà di cambiare, rendendo la libertà un obiettivo instabile e costantemente minacciato.

De Palma costruisce una regia elegante, studiata, sempre sul filo della tensione. I suoi movimenti di macchina sono precisi, quasi coreografici, e regalano al film momenti tecnici di alto livello, come la lunga sequenza nella Grand Central Station. Uno stile mai gratuito, al servizio della storia.
Il copione di David Koepp non punta sul ritmo frenetico, ma sulla coerenza. I dialoghi funzionano, la voce narrante dà tono e malinconia, la storia è semplice ma ben scritta. Si percepisce la volontà di raccontare una tragedia personale, non una saga criminale.
Al Pacino è intenso senza esagerare: il suo Carlito è un uomo maturo, stanco e consapevole, lontano dai soliti gangster spavaldi. Riesce a far sentire la fragilità di chi è intrappolato in un destino che non può controllare, con una performance misurata ma piena di emozione. Sean Penn, trasformato fisicamente, ruba la scena nei panni di Dave Kleinfeld, un avvocato viscido e ambiguo, sempre pronto a tradire e inaffidabile fino alla fine. Penelope Ann Miller regge bene il ruolo di Gail, l’unica luce nella vita di Carlito, portando sullo schermo dolcezza e determinazione che incarnano il suo desiderio di redenzione. Intorno a Carlito, i comprimari lasciano il segno senza strafare: Luis Guzmán è Pachanga, il confidente solido e apparentemente leale, Viggo Mortensen – in una scena sola ma memorabile – porta peso e malinconia nei panni di Lalin, ex compare finito su una sedia a rotelle, mentre John Leguizamo è perfetto nel dare corpo a Benny Blanco, giovane arrogante e senza scrupoli, destinato a diventare il suo esecutore.

La musica accompagna con misura, senza mai rubare la scena. I brani di soul, latin jazz e salsa fanno parte del mondo di Carlito, restituendo il sapore autentico degli anni ’70 e richiamando un passato già sfumato. La partitura originale di Patrick Doyle, delicata e malinconica, svela l’interiorità del protagonista, sottolineando i momenti più intimi e tragici. Questa colonna sonora sa quando restare in sottofondo e quando emergere, amplificando l’emotività senza mai forzare.
Il personaggio di Carlito nasce dai romanzi semi-autobiografici di Edwin Torres, ex giudice newyorkese che conosceva bene il mondo del crimine portoricano. Questo legame con la realtà dà al film un tono credibile e vissuto. Sean Penn, per interpretare l’ambiguo avvocato Kleinfeld, scelse di ridurre il proprio cachet pur di avere piena libertà nella costruzione del personaggio: capelli ricci, occhiali, un atteggiamento viscido e nevrotico, ben lontano dalla sua immagine abituale.
La scena finale, ambientata nella Grand Central Station, è una delle più complesse mai girate da De Palma: fu realizzata realmente nella stazione, in orari notturni, con un’enorme preparazione tecnica e logistica. Dettagli come questi contribuiscono alla tensione visiva e alla carica emotiva del finale, rendendolo uno dei più memorabili del cinema di genere.

Carlito’s Way è un film solido, raffinato e tragico. Non urla, ma colpisce con intensità sottile. Brian De Palma dirige con eleganza, sfruttando ogni inquadratura per costruire una tensione crescente senza esplosioni gratuite. Al Pacino offre una prova matura e misurata, dando vita a un protagonista complesso, diviso tra desiderio di redenzione e catene del passato. Il film si allontana dal gangster movie classico, puntando sul dramma interiore e sulle sfumature emotive anziché su scontri o colpi di scena. Scava nella psicologia dei personaggi e nelle conseguenze inevitabili delle loro scelte di vita.
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