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Vestito per uccidere

Regia di Brian De Palma vedi scheda film

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La recensione su Vestito per uccidere

di Letiv88
8 stelle

Un thriller sensuale e ipnotico che colpisce più per lo stile che per il mistero, firmato da un De Palma in stato di grazia.

Vestito per uccidere (1980) è uno di quei film che ti ricordano subito perché Brian De Palma è considerato l’erede più sfacciato, sensuale e malizioso di Hitchcock. Non nasconde mai le sue influenze: le ostenta. Le usa, le manipola, le ribalta. Qui prende l’ossessione, la sessualità repressa, la paranoia e il gusto per l’inganno tipici di Psycho (1960) e La finestra sul cortile (1954) e li trasforma in un thriller erotico che profuma di anni ’80 ma non invecchia. È un gioco al massacro elegante, ipnotico, pieno di trappole visive. Non mira al realismo, mira al coinvolgimento totale. Se ti abbandoni al suo ritmo, De Palma ti trascina per mano e ti taglia la strada quando meno te l’aspetti.

Kate Miller (Angie Dickinson) è una casalinga inquieta, intrappolata in una routine che non le dà più niente. Cerca emozioni altrove, fino a trovarsi coinvolta in un incontro clandestino che la porta verso una spirale pericolosa e improvvisa. Quando Kate rimane vittima di un brutale omicidio in ascensore, la storia cambia direzione e si incastra negli occhi di Liz Blake (Nancy Allen), una escort che diventa testimone, bersaglio e detective improvvisata. A incrociare la sua strada c’è il dottor Elliott (Michael Caine), psichiatra elegante e ambivalente, e soprattutto Peter (Keith Gordon), il figlio di Kate, giovane genio informatico che non accetta di vedere l’omicidio della madre cadere nel silenzio. Sarà proprio il loro sguardo incrociato, tra intuizioni, tecnologia e rischio costante, a scoperchiare una verità che De Palma distribuisce a gocce, rilanciando la tensione sequenza dopo sequenza.

De Palma qui è in modalità pura: controllo totale dell’immagine, ritmo calibrato, uso del silenzio come preludio all’esplosione. La regia è un omaggio dichiarato a Hitchcock, ma con le sue ossessioni personali ben piantate in mezzo alla scena. Il piano-sequenza al museo, girato al Philadelphia Museum of Art, è costruito come una coreografia teatrale preparata per settimane: non un semplice virtuosismo, ma un rituale seduttivo che trasforma lo spazio in un labirinto mentale. L’omicidio in ascensore è un colpo di mannaia visivo, un montaggio violento che sembra voler recidere la comfort zone dello spettatore.

Lo split screen torna come firma del regista, usato con misura quando serve far esplodere la tensione su due fronti. La fotografia calda, morbida, quasi sognante crea uno stridore perfetto con la brutalità degli eventi, mentre la musica di Donaggio – composta per essere allo stesso tempo invitante e inquietante – diventa parte integrante del modo in cui De Palma gioca con lo sguardo e con il desiderio.

La sceneggiatura è firmata dallo stesso Brian De Palma, e si vede: la storia è semplice, quasi minimalista, e non ha la complessità dei thriller moderni. Ma è proprio questa essenzialità a dare forza allo stile. De Palma modella la tensione più sulle atmosfere che sulle spiegazioni, puntando sull’ambiguità dei personaggi e sui non detti.

È una dichiarazione d’amore a Psycho, ma non si limita a imitare: introduce il sesso come fulcro della vulnerabilità di tutti, ribalta i punti di vista, costringe lo spettatore a inseguire le immagini più che la logica. E, anche nel ruolo di sceneggiatore, accentua quella dimensione ironica che emerge in Liz, sempre pronta a smontare la tensione con un guizzo. L’unico limite, se lo si vuole vedere, è nella risoluzione: tutto si incastra, ma la spiegazione finale è più funzionale che davvero emotiva. Tuttavia lo stile compensa la linearità del plot.

 

Angie Dickinson regge da sola la prima parte, costruendo una donna affascinata dal pericolo senza mai scadere nel cliché. Non partecipò direttamente alla sequenza onirica nella doccia, girata quasi interamente con la controfigura Victoria Lynn Johnson, scelta per ottenere l’impatto visivo che De Palma voleva. Nancy Allen è perfetta: intelligente, vivace, ironica, con quello sguardo da sopravvissuta che non si lascia intimidire da niente. De Palma modellò alcune sue scene sulle sue reazioni spontanee, accentuando naturalezza e ironia.

Keith Gordon porta un’energia giovane e nervosa che dà ritmo al film, dopo essersi preparato studiando veri “prodigy” della tecnologia per rendere credibile il personaggio. E poi c’è Michael Caine, freddo, controllato, ambiguo. Accettò il ruolo per interpretare qualcosa di più disturbante del solito, sfruttando la libertà che De Palma gli lasciò per costruire un personaggio elegante e minaccioso allo stesso tempo.

Vestito per uccidere nacque dal desiderio di De Palma di omaggiare Hitchcock dopo il successo di Carrie – Lo sguardo di Satana (1976). Il film fu al centro di una delle battaglie censorie più dure della sua carriera: la MPAA gli impose numerosi tagli per evitare il divieto X, sia per le scene erotiche sia per la violenza dell’omicidio in ascensore. Esistono versioni più integrali circolate solo in home video.

L’idea di giocare con l’identità dell’assassino portò anche a critiche legate alla rappresentazione dei disturbi psicosessuali, aprendo un dibattito acceso che accompagna il film ancora oggi. La colonna sonora di Pino Donaggio venne composta su richiesta precisa del regista, che voleva un tema capace di essere seduttivo e minaccioso nello stesso momento, e diverse sequenze furono montate direttamente sulla musica per amplificarne il ritmo. Sono dettagli che raccontano quanto De Palma avesse chiaro ciò che voleva ottenere: un thriller di pura atmosfera, dove ogni elemento – dal corpo alla macchina da presa, dalla musica ai silenzi – diventa parte dello stesso gioco manipolatorio.

De Palma non punta sull’intrigo complicato, punta su come lo guardi. È un film che ti trascina dentro il suo stile, che ti seduce e poi ti colpisce senza avvertimento. E proprio perché non cerca la perfezione narrativa, ma l’esperienza, rimane ancora oggi magnetico e riconoscibile. È un cinema che non si fa più: sfacciato, sensuale, ipnotico, capace di giocare con lo spettatore senza paura di esagerare. Vestito per uccidere resta così, sospeso tra eleganza e brutalità, tra desiderio e minaccia, come uno dei momenti più rappresentativi del De Palma che non ha mai chiesto scusa a nessuno.

Vestito per uccidere (1980): Trailer Originale | Re-encoded

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