Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
Voto: 7, 5 su 10
Dopo la sconfitta degli Apache guidati da Geronimo da parte dell'esercito statunitense, l'orgoglioso capo Massai sfugge alla deportazione in Florida e conosce la via di convivenza e parziale assimilazione con i bianchi sperimentata dai Cherokee, che hanno seppellito l'ascia di guerra e si sono dedicati alla coltivazione del mais. L'indomito Apache resta tuttavia scettico e medita invece ribellione e vendetta per ridare dignità al suo popolo: rientrato di nascosto nella sua comunità , viene tradito dal vecchio collaborazionista Santos e ne rapisce la figlia Nalinle credendola erroneamente complice: i due vengono braccati dai soldati in un'incessante caccia all'uomo.
L'ultimo Apache (1954): Jean Peters, Burt Lancaster
Bisogna superare lo sconcerto iniziale di vedere tutti i ruoli parlanti indiani, dal protagonista maschile Burt Lancaster a quella femminile Jean Peters e anche i non protagonisti come Paul Guilfoyle e Charles Bronson, affidati ad attori bianchi truccati e scuriti con il fard. Evidentemente negli anni 50 non esisteva proprio il concetto di “attore nativo americano”, anche se poi in questa pellicola gli indiani veri si vedono eccome, ma solo come comparse nelle scene collettive, chiunque abbia battute è di origine europea.
Ma dopo i primi venti minuti, una volta accettata questa convenzione di tempi ormai sorpassati, il film di Aldrich riesce ad avvincerti con un ritmo serrato e compatto che porta avanti l'azione e il messaggio senza perdersi in scene superflue , mantenendo il focus sulle motivazioni interiori ed ideali dei personaggi. Il Massai di Lancaster è un combattente indomabile e fiero, che pone al vertice della sua scala di valori la dignità del guerriero e la libertà del suo popolo: tuttavia non è né ottuso né fanatico e la prospettiva di una vita familiare con l'assennata Nalinle lo convince gradualmente alla rassegnazione alla fine del vecchio mondo delle tribù guerriere e dell'ineluttabilità dell'assimilazione almeno parziale alla nuova società americana, con l'adozione dell'agricoltura seguendo l'esempio dei Cherokee.
L'ultimo Apache (1954): Burt Lancaster, John McIntire
L'Ultimo Apache è il sorprendente esordio di un grande regista come Robert Aldrich, che nello stesso anno (1954) realizzerà anche il mitico Vera Cruz sempre con Lancaster. Già in questa opera prima si rivela la grande maestria registica dell'autore, con l'utilizzo di carrellate perfette, la fotografia a colori di Ernest Laszlo, ed alcune sequenze bellissime come il protagonista perso nella confusione della città di Saint Louis ed il prefinale con l'inseguimento carponi tra le spighe di mais.
Vanno riconosciuti innovazione e coraggio ad una pellicola che ha anticipato i tempi, facendosi veicolo, già a metà anni Cinquanta, del punto di vista degli indiani, allora inedito per il grande pubblico bianco, presentandoli in maniera simpatetica ed evitando di ridurli a figurine unidimensionali da avversare o compatire, ma rappresentando invece la complessità delle loro società e rispettando la loro dignità pur nella sconfitta. Il lieto fine non era quello voluto dal regista che aveva girato l'assassinio di Massai, ma fu imposto dai produttori tra cui lo stesso Lancaster: comunque funziona con il suo appello alla pace ed alla convivenza, con il pianto della vita nascente che mette finalmente a tacere gli spari dei fucili.
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