Il film svizzero L'ABRI, ovvero Il rifugio, è diretto dal regista originario marocchino Fernand Mergar. Sotto forma di documentario che tuttavia non esclude, almeno apparentemente, un certo canovaccio di recitazione o quanto meno di sceneggiatura da "suggerire" ai suoi interpreti "veri", nei panni di loro stessi dunque - la buona pellicola di Melgar, non nuovo a lavori riflettentisi sulle problematiche umanitarie e sociali, si concentra su un centro di accoglienza alle porte di Losanna, nel dipartimento francese. In un sotterraneo una associazione umanitaria si fa carico di gestire una struttura essenziale, tutta camerate e luci fredde al neon, che possa dare accoglienza ad emigrati e senza fissa dimora, al prezzo di 5 franchi giornalieri. Il problema è che questo ricovero, capiente di circa 100 posti letto, non puo' ospitarne ogni notte piu' di 50 a causa di problematiche legate alla sicurezza, imposte e pretese inderogabilmente dall'alto.
Per questo motivo i guardiani del "rifugio" ogni sera sono sottoposti al poco piacevole compito di scegliere, tra la folla di aspiranti fruitori, il gruppo eletto di coloro che potrà ripararsi dalla notte dei freddi, lunghi ed impietosi inverni svizzeri. Anziani, donne e bambini ovviamente detengono la precedenza, ma poi per chi resta la scelta è davvero dura, ingiusta e forzosa, disumana e senza un giusto o meritato criterio.
Turbamenti di coscienza che si sommano a problematiche organizzative e alla inflessibilità di una organizzazione lodevole, ma che soccombe dinanzi alla burocrazia inevitabile e sfiancante, demoralizzante e controproduttiva, specie quando si hanno in ballo esistenze umane appese ad un filo sempre piu' tenue di speranza e di riscatto.
Una sceneggiatura che è solo una sottile traccia, un suggerimento, consente agli "attori di strada" di recitare se stessi nella drammaticità delle singole storie che compongono un mosaico che è una odissea di proporzioni bibliche ormai senza precedenti.
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