Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film
Una setta ribalda e bellicosa rapisce la figlia del vicerè inglese in India. Per sgominare i cattivi di turno i britannici si uniscono al Maciste locale, chiamato Sandok.
Un lavoretto alimentare e decisamente insulso che reca la firma di un giovane, ma già abbastanza rodato Umberto Lenzi, questo Sandok il Maciste della giungla rappresenta oggi un’ora e mezza modestissima (a voler essere gentili) di intrattenimento, ma già all’epoca della sua uscita non doveva essere considerato molto meglio. Le ragioni sono molteplici: se Lenzi – che figura anche come sceneggiatore, insieme a Fulvio Gicca Palli – fa del suo meglio dietro la macchina da presa, il budget miserrimo che ha a disposizione non lo aiuta in effetti granché a far sì che “il suo meglio” equivalga a “indubbiamente dignitoso”. Gli interpreti sono pescati tra le seconde e terze linee del nostro cinema e di quello francese (trattandosi di una coproduzione franco-italiana) e non tutti dispongono del giusto appeal; allo stesso modo gli effetti speciali sono poveristici all’ennesima potenza, dalle riprese di tigri ammaestrate che dovrebbero sembrare feroci solo perché viene aggiunto all’audio un ruggito posticcio, fino ad arrivare agli indigeni che sono a tutti gli effetti attori europei, ma con la pelle leggermente truccata tendendo allo scuro. Mimmo Palmara, Marie Versini, Alessandra Panaro, Giacomo Rossi Stuart, Jacques Herlin, Andrea Bosic e l’americano (che in quegli anni recitò in alcune pellicole a Cinecittà) Sean Flynn sono i nomi principali sulla locandina; ma la curiosità principale, inutile nasconderlo, verte attorno al nome Sandok. Considerando che in pratica il film si presenta come ibrido tra il genere ‘sandaloni’ (Maciste, in buona sostanza) e le avventure salgariane, la scelta di tale nome non sembra corrispondere a un grande parto di fantasia; ma la questione peggiora soltanto, se si fa caso al fatto che Lenzi aveva appena finito di girare Sandokan, la tigre di Mompracem (1963). Pasticciaccio. 2,5/10.
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