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Piccolo grande uomo

Regia di Arthur Penn vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Piccolo grande uomo

di Dany9007
9 stelle

1970: ecco uscire nello stesso anno 3 titoli che, ciascuno con le sue caratteristiche ed i suoi meriti, hanno fatto storia nella nuova fase del cinema western. Difatti in quell’anno gli spettatori poterono vedere il tripudio di violenza e le brutalità commesse contro i nativi di Soldato blu, i rituali e gli aspetti meno noti della cultura indiana di Un uomo chiamato cavallo ed infine un’opera davvero fuori dagli schemi Il piccolo grande uomo. Tutte le volte che si cita l’innovazione degli anni ’70 sul genere western non posso fare a meno di evidenziare che un processo di profonda modifica della narrazione western era già in corso da alcuni anni, nel 1964 John Ford volle salutare il genere a cui il suo nome rimane più legato proprio con un film “risarcitorio” nei confronti del popolo indiano Il grande sentiero. Già nel 1948 sempre Ford ebbe modo di elogiare le virtù dei nativi e condannare l’ottusità e la malafede dei bianchi con Il massacro di Fort Apache, nel 1950 Delmer Daves ebbe modo di elaborare una vicenda rispettosa nei confronti degli indiani con L’amante indiana, così come Samuel Fuller ebbe modo quasi di anticipare Balla coi lupi  con il suo La tortura della freccia e Anthony Mann nel 1955 con L’ultima frontiera pone l’accento sui massacri perpretrari dai bianchi nei confronti dei pellerossa così come nel 1956 Richard Brooks con L’ultima caccia pose in risalto come l’approccio predatorio della caccia al bisonte dei bianchi metteva in pericolo la sopravvivenza della specie stessa degli animali così come quella degli indiani delle riserve. Detto questo gli anni ’70 portarono però una ventata nuova nelle modalità di narrazione e soprattutto, e qui forse è la vera novità, una sostanziale evoluzione nell’osservare i pellerossa che non sono più in qualche modo “avvalorati” secondo il punto di vista dei bianchi, quanto visti come una società anch’essa con i propri valori, le proprie caratteristiche e i propri schemi. Con Il piccolo grande uomo vi è una grande attenzione alla descrizione della vita nei villaggi indiani e insieme ad essa ai loro riti e le loro ingenuità (emblematico il concetto di battaglia degli Cheyenne fatto solo di “tocchi” nei confronti dell’avversario). Ma la vicenda del protagonista Jack Crabb che superati i 120 anni di vita svela un passato che gli ha fatto sfiorare le piccole e grandi tragedie del west, e che sembra anticipare la narrazione alla Forrest Gump (per cui incontra i grandi protagonisti dell’epoca da Wild Bill Hickok al Generale Custer, e di cui diventa un testimone privilegiato), è il tocco geniale dell’impostazione del film: passando in modo repentino dalla commedia a dei toni di una drammaticità intollerabile (i massacri nei villaggi indiani non lasciano nulla di sottinteso e in tanti ci hanno visto dei riferimenti alle violenze perpetrate dall’esercito statunitense in Vietnam), porta lo spettatore a calarsi in una rappresentazione del west violenta, razzista, bigotta. Tuttavia questo non impedisce al regista di mantenere fermamente il tono del film di tipo fluviale, con personaggi che quasi sempre escono di scena per poi rientrarvi in modo rocambolesco coerentemente con quanto voleva il regista Arthur Penn nel voler realizzare un film picaresco. Ad portare ulteriore lustro a questa pellicola vi è l’interpretazione di Dustin Hoffman, perfetto per il ruolo, ma anche la bellissima fotografia di Harry Stradling Jr. ed il trucco di Terry Miles e Dick Smith, sorprendente nell’invecchiamento di Dustin Hoffman da anziano.

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