Regia di Michael Powell vedi scheda film
La trama segue Mark Lewis, un giovane assistente cineoperatore ossessionato dalla paura e dalla morte, che di notte uccide giovani donne e filma le loro ultime espressioni di terrore attraverso. Le sue azioni sono un rituale perverso e radicato, conseguenza di un'infanzia traumatica. Il film esplora la perversione del voyeurismo e le conseguenze del trauma infantile, trasformando la cinepresa in un'arma che cattura il momento della morte. Il significato centrale ruota attorno all'ossessione del guardare, alla riflessione sul cinema come arte che può penetrare la psiche e alla provocazione dello spettatore, costretto a confrontarsi con le proprie perversioni. Michael Powell è stato coraggioso nel trattare temi molto audacia per l'epoca, come il trauma infantile e la scopofilia, la forte componente metacinematografica, e la sua capacità di creare un personaggio complesso come Mark, le cui ossessioni appunto derivano da un rapporto conflittuale con il padre, e si riflettono nella sua attività di assassino che filma le vittime. La sceneggiatura è davvero molto originale, ricca di inventiva e con una psicologia del protagonista affascinante, mentre la fotografia si distingue per l'uso di colori accesi e vividi che creano un effetto quasi tridimensionale e un impatto visivo notevole. "L'occhio che uccide" lo consiglio per la sua profonda e inquietante analisi del voyeurismo e del cinema stesso, e perché è un capolavoro "maledetto" che mise in profonda crisi la carriera di Michael Powell. È un'opera audace, stilisticamente avanzata e incredibilmente attuale, sul potere delle immagini e la nostra complicità con lo sguardo.
L'occhio che uccide (1960): Karlheinz Böhm
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