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Lolita

Regia di Stanley Kubrick vedi scheda film

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La recensione su Lolita

di Fabelman
8 stelle

Graffiante e audace critica alla società americana, che rappresenta, a suo modo, una disamina della natura umana tra virtù e debolezze. Una pellicola coraggiosa e forse da rivalutare, di un’artista che questa volta predilige l’impatto emotivo (generato sulla suscettibilità dello spettatore) sacrificando quello suscitato dalle immagini.

Raffinata e al tempo stesso tagliente, provocante ma ancor di più provocatoria, ammirata con compiacimento ma giudicata e condannata per assecondare il pubblico pudore: “Lolita” e Lolita, film e protagonista, sono la medesima cosa, la medesima espressione; entrambi svolgono la funzione di esca (infallibile) per far calare giù la maschera, quel patetico e ridicolo travestimento di perbenismo e moralismo indossato trasversalmente in ogni società e cultura umana e che ha caratterizzato fortemente la società americana avente il suo clou negli anni ‘50 del secolo scorso. Una società giustizialista e perbenista figlia di quella visione puritana volta a otturare i sentimenti, le inclinazioni, le passioni, i turbamenti e le pulsioni, plasmando una condizione generale dell’animo umano non maggiormente pura ma soltanto più ipocrita, abile a condannare il prossimo assecondando e condonando la propria di perdizione. Giusto nel ‘62, nel pieno di questo marasma moralistico, Stanley Kubrick osa sfidare il sacro pubblicando il profano; dall’omonimo romanzo di Vladimir Nabokov (che firma anche la sceneggiatura), con una stupenda fotografia in bianco e nero firmata Oswald Morris (in carriera 3 volte candidato e 1 statuetta assegnata agli Oscar), costumi che hanno fatto epoca e musiche firmate dall’affermato musicista jazz Nelson Riddle, ecco presentata al mondo “Lolita”.

Già lei, Lolita, incarnata da Sue Lyon, pressoché quindicenne all’epoca delle riprese, bravissima ma “rigorosamente” e “dovutamente” snobbata dalla giuria prima di tutto morale e poi degli Oscar, è stata quanto meno candidata ai Golden Globe come giovane promessa. Sue Lyon che avrà carriera breve, troppo presto dimenticata dagli studios. Ma la sua prestazione è notevole, ha fascino, carisma, sorregge appieno il peso del suo difficile ruolo in un’opera che la vede al centro di due veterani come James Mason e soprattutto Peter Sellers, verso il quale Kubrick sembri avere una predilezione per le sue doti di trasformismo (come accadrà nel successivo “Il dottor Stranamore”).

James Mason interpreta Humbert Humbert, l’incarnazione dell’americano medio dalla doppia anima e per questo dal doppio e altrettanto poco plausibile doppio nome identico; uno scrittore di scarso successo, divorziato, appena trasferitosi per assumere il ruolo di insegnante in una scuola superiore. Alla ricerca di un alloggio, entra in casa di una donna vedova con figlia adolescente al seguito; dapprima restio per via delle avance di tale signora Charlotte Haze (interpretata dalla brava Shelley Winters), ogni riluttanza si scioglie e si dissipa alla vista di quell’incantevole “ninfa” sdraiata in giardino.

Lo scompiglio all’interno dell’uomo è totale; sposerà la madre per poter amare la figlia, fuggirà con lei deteriorando se stesso, perdendo il controllo, la stima nei confronti della propria esistenza per cedere all’ossessiva pulsione verso l'oggetto del proprio desiderio, quella giovane ragazza (ancor peggio minorenne) chiamata figlia che a lui si concede seducendolo sin dai primi incontri. Lei, la gioventù dissoluta e disinibita, trova al suo cospetto un uomo, orgoglioso simbolo della maturità acquisita e garante della stabilità sociale per via di condizionamenti moralistici, che nella sostanza è sulla stessa via di perdizione, adescato dagli stessi desideri, smascherato dalle stesse traviate azioni. 

Questa maschera seria e dannata è controbilanciata da quella (anzi, quelle) indossate da Peter Sellers nei panni di uno psicologo, anzi no un poliziotto, macché era un giornalista, o forse un pedinatore, ah ecco lo zio di Lolita. . .o forse no?!

La confusione identitaria, goffa e buffa di una società americana che è pronta (vogliosa?) ormai di gettare giù la maschera.

L’abitazione del personaggio di Sellers, tale Clare Quilty, è un ambiente prettamente kubrikiano, caotico quanto colto, settecentesco quanto contemporaneo, un agglomerato di umanità dalle nature più disparate e disorientate tante nel mondo quanto dentro sé stessi. La scelta di conciliare il prologo con l’epilogo è meravigliosa.

La pellicola riceverà una sola candidatura agli Oscar per la migliore sceneggiatura non originale; verrà distribuita a fronte di mille compromessi e trattative (che coinvolgono finanche le autorità ecclesiastiche) e soprattutto per un sopraggiunto accordo di vietarlo ai minori di 18 anni (oggi 16 in Italia).

Senza falsi pudori, il film è una rappresentazione della natura umana che, se repressa da ipocriti e maldestri tentativi di imporre una precostituita moralità, finisce per esacerbare le proprie più infime perversioni.

Alla fin fine, è il personaggio di Lolita a imporre un certo controllo e su di lei, oltre a gravare il ruolo di complice, vi è chiaro quello di vittima in quanto figlia di una società deviata per quanto ben mascherata.

Una società che mantiene tutt’ora quel senso ipocrita di pudore; l’educazione e la morale è un’altra cosa (non me ne vogliano i puritani).

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