Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Mentre torna a casa in pullman nel Laos, un uomo si addormenta. Sogna un cane che non riesce a fuggire dalla zona centrale di un calcinculo in una fiera, e un uomo che dà fuoco a delle sterpaglie. Poi è giorno: al mattino si gira fra strade di case diroccate, circondati da mucche e galline in libertà, finché non si arriva a casa, si mangia, e poi si visita un mercato, si vedono altre case, si mangia all’aperto con tanta altra gente. Il sole sta però calando, ed è tempo di tornare in albergo. Le 24 ore essenziali di gita di Tsai Ming-liang insieme all’attore Anong Houngheuangsy (già co-protagonista in Days) sono un balsamo di cinema: immagini fisse e totalmente gratuite, per cogliere lo spirito di un luogo, la sua religiosità (ci si sofferma a lungo sugli scultori dei Buddha per i templi) e i suoi lati più prosaici. Tsai passeggia, si ferma a guardare quello che lo colpisce di più, tenta di allinearsi o affiancarsi alla memoria di Anong, riempiendo di possibilità gli spazi vuoti lasciati dalle carcasse delle abitazioni. Permette di guardare la realtà da prospettive immobili che una reale passeggiata non permetterebbe fisicamente, donando una realtà così trasfigurata. È un film che implicitamente lavora di empatia (Tsai vive i luoghi e forse la nostalgia di Anong), ma che innanzitutto lavora in purezza. Da guardare sullo schermo più grande possibile per trovare ogni virgola che miracolosamente si traccia in ogni angolo, che siano foglie, pietre, gattini, sacchetti o bottiglie, risultato automatico di una realtà piena e vuota allo stesso tempo, indipendente dal suo regista che nella penultima inquadratura si fa pure trovare in campo, di spalle, senza che possa guardare la camera già installata, lasciando che la camera agisca da sola. Forse per lasciare che questa diventi parte di quel luogo.
Back Home è un regno di grazia da cui non si vorrebbe uscire, ma un giorno di bellezza dura sempre troppo poco.
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