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Tales of the Wounded Land

Regia di Abbas Fahdel vedi scheda film

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La recensione su Tales of the Wounded Land

di EightAndHalf
5 stelle

Il concorso di Filmmaker Festival 2025 (a Milano) presenta uno snodo riflessivo suggestivo sul documentario con Tales of the Wounded Land, dell'iraniano Abbas Fahdel, premiato all'ultimo Festival di Locarno con il Premio alla Miglior Regia. Sequel del diaristico Tales of the Purple House (passato già a Locarno 2022), riprende la struttura del diario ma è costretto a diffondersi su luoghi più ampi, aperti, "dispersi", rispetto alla casa viola del primo titolo, proprio la casa dove Fahdel e la moglie vivono in Libano, e che sono costretti a lasciare insieme alla figlia (all'inizio di Wounded Land) a causa dei missili israeliani del 2024. Dopo l'excursus iniziale fra le immagini amatoriali che documentano dal di dentro del paese la distruzione, la famiglia protagonista torna nella sua casa a Nebatieh una volta dichiarato il cessate il fuoco, per constatare come ormai la guerra abbia cambiato i connotati della città. Fahdel costruisce delle scene-interviste di cui non si può fare a meno di notare la natura "performativa": in campo la moglie Nour e la figlioletta, intente a parlare con i sopravvissuti ai bombardamenti ("complimenti per essere sopravvissuto", si sente Nour ribadirlo più volte), su scenari e inquadrature esteticamente ragionate perché sintetiche ed evocative di una patria che è stata distrutta. I sopravvissuti ripetono la loro resilienza (e il loro orgoglio nazionale) tra le rovine, e in modo altrettanto resistente (ostinato) Fahdel costruisce le scene, con una grammatica rigida e forzata che si tiene ben salda a fronte di un mondo sgrammaticato. Nonostante la bimba sia davvero la versione anarchica della reazione alla tragedia (saltella tra le tombe, si lamenta con la madre mentre questa prega i morti, corre sopra i frammenti di vetro degli edifici in rovina, solo raramente piange dispiaciuta per gli eventi), Fahdel sembra "combatterla" con le armi del montaggio, dello staging, aspirando a una compatezza formale un po' gratuita. Una dimensione che si libera solo nelle sequenze iniziali e finali coi droni, in cui l'orizzonte si allarga e il movimento è libero, perché a "performare" è la nazione libanese - là dove sembra esserci solo sana rivendicazione patriottica e invece purtroppo matura il desiderio vendicativo - e Fahdel non può controllarla. Nel bene o nel male, non è forse anche questa un'indagine su quanto la scelta di un documentarista confini la realtà? Su quanto l'immagine cinematografica, per sua stessa struttura, tradisca il confine fra gesto naturale e performance paradossale?

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