Regia di Mikael Marcimain vedi scheda film
Uno studente universitario in legge (Lööf) conosce accidentalmente una ragazza (Rios) durante una protesta studentesca che degenera in sommossa. Lei lo trascina fuori dall’appartamento che lo studente – di origini modeste – divide con due figli di papà (capaci di bullizzarlo mentre sorseggiano vino costoso e intonano gangster rap), per trasferirlo in una sorta di comune di aspiranti rivoluzionari, gente che cita Baudelaire mentre pianifica rapine e che proclama la propria “radicale onestà” tra ostriche, champagne e droghe varie. Lui, povero illuso, scambia il reclutamento per amore, e quando capisce chi ha davvero davanti è ormai troppo tardi.
Basterebbe la scena iniziale, con un orologio da trentamila euro che sparisce da una gioielleria gestita da un orefice distratto, per avere la misura dell’implausibilità del film. Eppure, il regista svedese Mikael Marcimain – un carneade che dovrebbe darsi ad altro – riesce a superarsi: costruisce un apologo sulla lotta di classe che sembra un bigino da propaganda reazionaria, in cui i ribelli appaiono più predatori che idealisti e i borghesi, almeno, non fingono di salvare l’umanità mentre ti pugnalano alle spalle. A questo si sommano i buchi di sceneggiatura, dialoghi rigidi e un montaggio che vorrebbe suggerire smarrimento ma produce solo noia. Sicché alla fine la parabola morale si accartoccia su se stessa e il film resta un oggetto pomposo, indeciso se essere un thriller, un dramma sociale o un manuale di filosofia spicciola. Insomma, la solita paccottiglia Netflix.
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