Regia di Mel Gibson vedi scheda film
Ci sono momenti nei film in cui d’un tratto capisci di assistere ad un capolavoro. Nell’ultima fatica di Mel Gibson questo momento arriva dopo due ore di autentico strazio. Visivo ed emotivo. E’ la scena in cui Gesù Cristo, crocifisso sul Monte Golgota, affida la sua anima al Padre prima di esalare l’ultimo respiro. In questo momento, la telecamera si innalza in cielo per poi ricadere a terra sotto forma di goccia mischiandosi al sangue che cola dalla croce. E’ la lacrima di Dio che piange per il figlio morto e per tutta l’umanità, prima che si scateni la biblica tempesta. E sempre in questo momento preciso, dopo 120 minuti durissimi in cui le ultime dodici ore della vita di Gesù di Nazareth (l’ultima cena - in flashback -, la tentazione di Satana nell’Orto dei Getsemani, il tradimento di Giuda, il processo che porterà alla morte) vengono filmate con uno scrupolo tanto filologico (non pesano però i tanto discussi dialoghi in latino e aramaico) che paiono venire dritte da un sussidiario di religione, capiamo che Gibson fa sul serio. Terribilmente. E capiamo anche che le accese polemiche sulla gratuità della pellicola sono infondate. E’ vero, il corpo di Cristo non viene solo flagellato dai soldati romani bensì massacrato, torturato, seviziato, martoriato, scarnificato come mai nessuno aveva osato fare. E questo prima di ricevere una corona di spine spinta sulla testa a suon di mazzate, di essere insultato e malmenato durante la Via Crucis, di vedersi infilzati mani e piedi da lunghi chiodi piantati a lenti colpi di martello nel legno madido di sangue, di vedersi trafitto da una lunga lancia.
Sangue a fiotti, dolore, fastidio, irritazione. Tutto questo si prova nella visione de La Passione di Cristo, ma riflettiamo: e se Gibson avesse voluto fare un “horror religioso”? Scegliendo di ispirarsi ai santi Vangeli e adattando con più di un rischio alcuni archetipi mistici o iconografici (il Diavolo, ad esempio, è una donna in tunica nera con serpente ai piedi e bimbo luciferino in grembo), il regista australiano evita qualunque paragone con predenti illustri e percorre la strada, difficile e coraggiosissima, della provocazione fisica che cerca apertamente lo spettacolo. Ma non è una scelta disonesta. In tempi in cui il sangue scorre copioso in molte parti del mondo e rimbalza su copertine e telegiornali in prima serata, i fiumi di porpora liquidi che escono dalla ferite del Cristo schizzando vestiti e insudiciando la Terra sono la fisica constatazione di due concetti da troppo tempo dimenticati: la stupidità degli uomini e la Pietà. La prima affonda le radici nel momento in cui gli Ebrei condannano a morte il Messia ritenendolo un mero bestemmiatore ma poi il Re Erode lo rimanda a Ponzio Pilato in fin di vita; la seconda la mostra un Gesù “ecce homo” nei confronti del Governatore Romano che, lavandosene le mani, fa decidere il suo tragico destino alla folla.
Gibson fa bene a prendere a pugni i nostri stomaci, e la sua cifra stilistica colpisce per rigore e magniloquenza, pur tra effettacci gore, mille comparse e qualche discutibile scelta storico-narrativa. Senza falsi pudori o gretti moralismi, il regista ci ricorda che siamo tutti così schiavi e assuefatti alla violenza che abbiamo dimenticato quanto la sofferenza esista, sia sempre esistita e faccia male. Quanto noi tutti inconsciamente cerchiamo di evitarla, di ignorarla, invocando meschinamente un perdono che non meritiamo. E allora ce la fa vedere. Quando Maria, alla fine, piange suo figlio stringendoselo tra le braccia, piangiamo anche noi. Due ore di grandissimo cinema che commuove il cuore raggelando lo sguardo, costosissimo, girato in modo pazzesco e arrogante tra Cinecittà e la Lucania, per nulla antisemita ma che se ne parli, se ciò spinge verso un’affluenza maggiore nelle sale. Perché ne La Passione di Cristo, azzardiamo, c’è la redenzione. Patiamo anche noi in modo atroce tutte le atrocità che subisce Gesù, solo che poi noi usciamo dalla sala distrutti più di quando siamo entrati (sì, è masochismo), Lui muore per noi, ci perdona e risorge. Ma almeno siamo salvi.
Francesco de Belvis
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