Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
È tempo di primavera. Primavera persiana. Un semplice incidente è soltanto l’ultimo tassello di un filone cinematografico iraniano che ha preso le forme di un vero e proprio movimento artistico che continua a portare avanti, da oltre un decennio, una lenta ma costante rivoluzione culturale. Pahnai, Farhadi e Rasoulof con il recente Il seme del fico sacro sono gli alfieri più rappresentativi di questo movimento che non alludono soltanto, ma denunciano alla luce del sole le storture della repressione di regime, dell’ingerenza della sharia su qualunque forma di libertà civile.
Un incidente d’auto di quella che potrebbe sembrare una normale famiglia iraniana segna l’inizio della pellicola. L’uomo al volante, nel tentativo di riparare l’auto, viene assistito da un passante che si reca al lavoro presso un allevamento intensivo. Un particolare inatteso, martellante, giunge alle orecchie di Vahid, il collega di lavoro che, senza apparente motivo rapisce l’uomo e lo porta in giro per le vie della città interrogando amici sulla presunta identità dell’uomo. Quel particolare, infatti, lo riporta indietro ai tempi della prigionia per reati politici contro il regime. Questo innesca una serie di vorticose conseguenze dalle quali non sarà più possibile tornare indietro in un road-movie sui generisintriso di mistero, ma all’insegna di toni tragicomici.
Proprio quest’elemento permette di esaltare il senso tragico dell’opera, un po’ come quando si è soliti aggiungere un pizzico di sale per esaltare la dolcezza di una pietanza. Il gioco dei contrasti permette a Pahnai di amplificare la tensione emotiva che lo lega al suo spettatore.
Un film squisitamente tragico, non soltanto nei toni e nella scelta di raccontare senza mai mostrare la violenza, ma nella sua stessa essenza drammaturgica. Seguiamo il tormento interiore di Vahid, combattuto tra il desiderio di vendetta e la voce della sua coscienza, alimentata da quella collettiva di una parte dei co-potragonisti, che lo esortano a non cadere nell’errore di macchiarsi dello stesso torto subito, in quella dicotomia che separa la vittima dal suo carnefice, di porre fine all’infinita contaminazione (miasma) della violenza. L’infrazione della legge del sacrificio, di un male necessario per vendicare un male precedente, del sangue che lava via la colpa, diventa occasione di riflessione sull’ineluttabilità della condizione umana riservata a chi, ostinatamente, si rifiuta di perseguire il male. Si tratta di un’amara riflessione sulla tragicità del destino umano, ancora alla ricerca di salvezza.
L’uso di una tecnica che potremmo forse ascrivere a una sorta di sinestesia cinematografica, uno strumento che tanto aveva colpito ne La zona di interesse di Garland, torna prepotentemente in scena anche in questo film. Perché, se la magia del cinema è quella di coniugare l’immagine in movimento al suono, quella del regista è stata quella di mostrare e racchiudere la potenza universale della violenza psicologica e fisica in un piano statico di secondi infiniti soltanto attraverso l’uso del suono.
In questo si può racchiudere la grandezza del film: che si fa sintesi di una violenza di regime, che possiamo estendere a qualunque forma di esercizio del potere autoritario, capace di manifestarsi più che nell’uso della violenza nella percezione della stessa. Come in una sinestesia.
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