Regia di Jafar Panahi vedi scheda film
DIOMEDE LI VEDE E… LE CRITICHE DI DIOMEDE917: UN SEMPLICE INCIDENTE
Chissà se con Un Semplice Incidente il regista Jafar Panahi abbia fatto pace con i demoni interiori che convivono in lui dopo gli anni di prigionia che ha passato durante la sua vita d’artista sotto il regime iraniano, ma nel film Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes si percepisce la rappresentazione di tutto il dolore che ha provato e che ha lasciato cicatrici profonde fino all’anima.
Girato di nascosto per paura di ulteriori ripercussioni personali, Un semplice incidente è soprattutto “Grande Cinema” incastonato dentro una sceneggiatura di ferro con echi Beckettiani. Un Iran dell’assurdo raccontato come Teatro dell’Assurdo.
Il film si apre focalizzandosi sugli “Animali Notturni” che il destino decide di metterci di fronte.
Una tranquilla famigliola (Papà, mamma in attesa di partorire il secondo genito e la piccolina impegnata a giocare col tablet e sentire la musica trasmessa dalla radio) nel buio della sera investe un cane randagio. Praticamente “Un Semplice Incidente” che poteva capitare a tutti ma che li costringe a cercare un meccanico d’emergenza visto il danno parziale alla macchina.
Vahid, uno dei due soccorritori, nella penombra della sua officina riconosce quel cigolio che non potrebbe dimenticare nemmeno in 10 vite. È il rumore della protesi di Eghbal (praticamente Gamba di Legno) il suo torturatore dei servizi segreti iraniani, l’uomo che l’ha picchiato talmente forte durante la prigionia al punto di compromettere l’uso di un rene. Un uomo senza volto, visto che è sempre stato bendato, ma riconoscibile dal senso dell’udito perché il rumore della protesi è il suono del terrore come le lame di Freddie Kruger in Nightmare.
Deciso a compiere quella vendetta che aspetta da anni dopo averlo seguito fino sotto casa, il giorno seguente lo investe col suo van e lo rapisce portandolo nel deserto scavando una fossa all’ombra di uno strano albero che ricorda quello di Aspettando Godot. Ed è proprio in quell’occasione che il protagonista ha un dubbio. E se quella protesi non se la fosse fatta con orgoglio in Siria ma a seguito di un altro incidente? E così intraprende un viaggio negli inferi della nuova Iran alla ricerca di altri perseguitati e torturati dalle follie del Regime.
Si imbatte prima nella fotografa Shiva che ha messo anni per resettare le violenze subite e che ha ripreso a vivere imbracciando ideologie pacifiste che questa notizia però potrebbe far vacillare. Shiva sta facendo un servizio fotografico per le nozze Golrokh, una ragazza che ha puntato tutto su questo matrimonio per vivere una vita migliore rispetto al dolore e all’umiliazione provocata dal suo carnefice con una gamba sola. A questo variegato gruppo si unisce l’impulsivo Hamid, ex di Shiva che riconosce subito il suo boia dall’odore acre del suo sudore.
È un film su come le torture sviluppano gli altri sensi rispetto a quello della vista privato dalla bendatura. Il male non ha una forma, il mostro si nasconde dietro un suono di una protesi che striscia, dietro un odore sulfureo, dietro il tatto delle sue cicatrici di guerra.
È un film che ci racconta di un Iran corrotta che si fonda su piccole tangenti, una realtà talmente all’avanguardia che riscuote il pizzo tramite Pos.
Ma è soprattutto sulla vera natura dell’essere umano. Le umanità raccontate da Panahi provano rabbia, provano rancore, ma sono comunque buone nell’anima e certe nefandezze compiute in nome di una Stato Fascista non fanno parte, comunque, parte del loro codice genetico.
E alla nostra domanda, se la persona sequestrata sia o non sia l’uomo nero che si manifesta quando meno te lo aspetti per portarti dentro il suo inferno, Jafar Panahi ci risponde con un finale tremendo che ci porteremo dietro per tutti i titoli di coda fino ad arrivare a casa.
Voto 10.
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