Regia di Lav Diaz vedi scheda film
TORINO FILM FESTIVAL 43 (2025)
Con “Magellan”, Lav Diaz rovescia la mitizzazione di Ferdinando Magellano quale eroico esploratore da compendio scolastico, restituendolo alla terrena dimensione di sanguinario conquistatore nonché di uomo divorato dal proprio ego autoritario, celato dietro una glorificata missione civilizzatrice in nome della sacra fede cristiana.
Ancora una volta profondamente radicata nella cultura filippina, la pellicola individua un sorprendente pertugio per sfuggire alla standardizzazione del biopic contemporaneo, adottando come punto di vista principe quello della popolazione asiatica e non del navigatore portoghese, a dispetto di quanto il titolo possa far presagire. Una prospettiva attraverso cui il regista filtra il tema cardine, dichiarandolo apertamente perpetua iattura di un intero paese: il mito quale atavica forma di potere, ancora oggi fortemente condizionante le vite dei propri conterranei.
Diaz non si limita dunque a decostruire Magellano, ma mette in discussione anche la figura di Lapu Lapu, storicamente celebrato come il sovrano di Mactan che sconfisse l’invasore, facendolo (non) apparire come una sorta di spettro politico, evocato - o meglio, ideato - da Humabon, re di Cebu, in un pragmatico gesto di più che mai umana strategia militare volta a intimidire e trarre in inganno il nemico, rivelando la lucidità di chi ha astutamente compreso, meglio d’ogni altro, le regole del gioco.
Ogni scena, impressionata da un differente punto macchina fisso, tiene gli attori a debita distanza, inquadrandoli al massimo in piano americano negli sporadici istanti di compressione psicologica data da riflessione, preghiera o disperazione, mantenendo invece in perenne campo lungo l’irrazionalità della violenza e facendo del montaggio interno il primario mezzo di invisibile scansione ritmica del racconto.
L’insolito impiego del colore, in luogo del più familiare bianco e nero, compone con pennellate pittoriche veri e propri quadri in movimento, grazie alla dovizia di una fotografia che, unita ad una messa in scena sobria nella propria sofisticazione, non sfocia mai nel manierismo, rimarcando il fondamentale attaccamento al reale in un’opera che vuole primariamente mettere in discussione la materia divina. I personaggi entrano ed escono teatralmente dallo spazio scenico, lasciando all’immaginazione il compito di completare i fervidi ambienti naturali, in un 4:3 capace di raccontare persino nell’immobilità.
“Magellan” dimostra come sia possibile affrontare qualunque storia senza sacrificare la propria identità autoriale che, per quanto piegata a un’estetica accogliente, una durata contenuta e un protagonista di fama internazionale, resta tuttavia perfettamente identificabile nei propri fondamentali tratti, tanto da rendere desiderabile l’eventuale riproposizione di una formula agevolmente ricevibile anche presso il grande pubblico.
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