Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
Immagina il quadretto: perdi il lavoro nella fabbrica di carta in cui sei impiegato da più di 20 anni e scopri che l'azienda cerca un nuovo caporeparto, e che su quattro colloqui tu sei arrivato ultimo. Cosa fai per riprendere il lavoro e garantire alla tua famiglia lo stesso regime di vita? Ma che domande: uccidi i concorrenti. Questa la scintilla narrativa del nuovo lavoro di Park Chan-wook, funambolico divertissement che apparentemente disquisisce di precarietà, di automatizzazione del lavoro e di conseguente disoccupazione, di trasformismo sociale e infine di relazioni familiari, e in realtà sembra non avere reale interesse nel suo sottobosco umano e nelle sue congiunture drammatiche. Parte come una favola nera, finisce come una favola nera. No Other Choice pare quasi una menzogna: Yoo Man-soo ha altre scelte, come quelle che gli propone la moglie (vendere la casa, lasciare andare i due cani, cambiare tipo di lavoro), ma si ostina a dire che la carta è il suo mondo e che non può esistere alternativa. La no other choice di un precariato auto-indotto è il risultato di un capriccio, niente di più niente di meno. Vien da sé quindi che i personaggi del film avanzino strumentali per pura affabulazione scenica, per formalità visive che si cimentano in virtuosismi di montaggio e prospettive imprevedibili della macchina da presa. È il regno post-tarantiniano: non ci interessa davvero chi vive e chi muore se non in misura dei volumi di scenografia che possono più o meno occupare. Pare che quell'umanità non davvero raccontata sia solo il rumore di fondo, il fuoricampo significativo, perché a rimanere sono solo questi strati su strati di idee e di immagini, barocchismi involuti che parlano a loro stessi, e che nel migliore dei casi cercano di reinventare il canone dell'intrattenimento grottesco, “naturalizzando" capovolte, sovrimpressioni parziali, dissolvenze incrociate. Che siano barocchismo lo dice un ritmo che arranca nonostante gli arzigogoli. In questo e in sé, si chiarisca, non c'è nessuna colpa, anzi: per Park è un campo di prova, stressare la commedia degli equivoci e l'assurdo coeniano fino agli estremi. Ma il sapore è mero, più che "semplice come lo sono i capolavori". Un po' becero, sottile, da sorriso passeggero, da sfacciato pretesto, nel cerchiobottismo un po' furbo di chi si permette di inventarsi qualsiasi improbabilità senza rivendicare realismo per poi cercare di lanciare invettive letterali su crisi e povertà e società del presente. È il gioco complesso della satira, ma le invettive di Park sono controproducenti.
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