Regia di Lynne Ramsay vedi scheda film
“Enough.”
Senza girarci troppo attorno: “Die My Love” (titolo interpretabile come locuzione metaforica applicata che i protagonisti possono rivolgersi l’un* all’altr* vicendevolmente con equivalenti “ragioni”: sì, ho usato un succedaneo dell* schwa, ma solo per poter mettere sullo stesso piano i due personaggi senza dare ad intendere l’intenzione di esprimere in alcun modo un giudizio di predominanza giustificativa relativo a una delle due parti della coppia sfidantesi quotidinamente nell’arena casalinga di questo gioco al massacro), il quinto lungometraggio scritto – traslando, con la collaborazione di Enda Walsh (“Hunger”, “The House”) e Alice Birch (“Lady Macbeth”, “The Wonder”, “Dead Ringers”, “The End We Start From”), l’omonimo (“Matate, Amor”) romanzo di Ariana Harwicz (1977) uscito una dozzina d’anni prima –, diretto (fotografia di Seamus McGarvey e montaggio di Toni Froschhammer) e musicato (con George Vjestica e Raife Burchell) da Lynne Ramsay (1969) in un quarto di secolo di carriera dopo “Ratcatcher”, “Morvern Callar”, “We Need to Talk About Kevin” e “You Were Never Really Here”, più altrettanti cortometraggi, è un film che ha un sacco di problemi, certo però è che se lo si confronta con quello che, anche se solo in apparenza, è il suo omologo, ovvero, sempre abitato da una performance “animale” (e un po' monella, nel senso tintobrassiano del termine) di Jennifer Lawrence (che co-produce, assieme a Black Label Media, con la sua Excellent Cadaver e, tra gli altri, Martin Scorsese, mentre MUBI distribuisce nel mondo, ed è coadiuvata da tre altrettali satelliti attoriali diversissimi tra loro quali Robert Pattinson (l'uomo inadeguatamente normale in circostanze straordinarie), Sissy Spacek (Grace cerca di essere una buona nuora in un momento difficile anche per la suocera) e Nick Nolte (Grace cerca il suo aiuto nei sogni durante il TSO), più LaKeith Stanfield), il “mother!” di Darren Aronofsky (quando in realtà si potrebbe azzardare a dire che per certi versi – il più significativo fra i quali non è altro che il perno emotivo centrale dell’opera inseribile nel filone “biblico” del regista di “The Fountain” e “Noah”, quello della totalizzante maternità vissuta e/o indotta tale come parzialmente estranea a sé e/ma/perciò annichilente – si tratta invece di un compendio, anche dal PdV fotografico/pittorico, a “River of Grass”, un film di trent’anni prima, ovvero l’esordio di Kelly Reichardt, ed altresì può addirittura essere letto ed inteso come il contraltare a corollario dello stesso “We Need to Talk About Kevin”, con un cenno d’intesa verso il fonale di “The VVitch: a New-England Folktale” di Robert Eggers, se pur senza momento di sospensione della forza di gravità), beh, allora è tutta un’altra storia: “Die My Love” rispetto a “mother!” è disadorno d’ogni opprimentemente costitutiva belluria sovrastrutturale.


Se è inutile piangere sul latte (in eccesso natural-corporale) versato, ciò vale anche per l'inchiostro (in disuso per proverbiale "blocco"): da scrittrice a madre, quindi, è l'ovvia dicotomia percepibile che traspare osservando la superficie dei giorni, ma il "sacro" (nel senso "naturale" del termine) e forzato passaggio di consegne (e di non-testimone) per Grace (nome eminentemente malickiano) verso sé stessa sarà sterile, e poi basta.


-------------------------------------------------------------------------------------------------------


-------------------------------------------------------------------------------------------------------


-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "Mother!" ↓↓)

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "Mother!" ↓↓)

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "Mother!" ↓↓)

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "River of Grass" ↓↓)

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "River of Grass" ↓↓)

-------------------------------------------------------------------------------------------------------

(↑↑ "Die My Love" ↑↑ --- ↓↓ "The Witch" ↓↓)

Trailer.
Jon Prine feat. Iris DeMent - “In Spite of Ourselves”, da “In Spite of Ourselves” (1999).
George Vjestica, Raife Burchell, Lynne Ramsay - “Love Will Tear Us Apart” [Joy Division (Ian Curtis, Bernard Sumner, Peter Hook, Stephen Morris), 1980].
"I don't have a problem attaching to my son. He's perfect. It's everything else that's fucked."
È quel che è, un brindisi all'estinzione, un auto-autodafé, e poi “Enough.”
Brucia, e dunque vive. Ché se smette / ⁄ _.
* * * ¾
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta