Regia di Edward Zwick vedi scheda film
A sfidare a colpi di spada l’inizio del 2004, dopo le pellicole di Tarantino, Olmi e Kitano, è il bello per eccellenza, Tom Cruise, che da anni si sforza - a buon diritto, perché lo è - di farsi credere anche bravo. Ne L’Ultimo Samurai interpreta il capitano Nathan Algren, novello Custer provato dalla Guerra Civile e dalle lotte contro gli Indiani d’America. Una altro eroe a suo modo, ultimo erede di una dinastia di Samurai, Katsumoto (Ken Watanabe) dall’altra parte del globo vede il Giappone crollare sotto le macerie delle proprie tradizioni. Corre il 1876, e il capitano Algren viene ingaggiato dal giovane imperatore giapponese, volenteroso di aprire la nazione al progresso, al moderno e al commercio, ad addestrare col fucile il nuovo esercito nipponico, più a suo agio con l’arma bianca. Sarà Katsumoto a guidare un gruppo di Samurai ribelli contro la politica dell’impero e a sfidare l’esercito del suo paese guidato da uno “yankee”, uno straniero che, catturato, in poco tempo cambierà bandiera imparando, tra duelli, cariche di cavalleria e sconfitte, ad apprezzare la filosofia di questi guerrieri con un proprio codice morale, pronti a morire combattendo e a riflettere sul senso dell’eroismo e delle scelte.
Vero e proprio kolossal americano in kimono e katana da oltre 100 milioni di dollari, ambiziosissimo nel voler essere di genere, il film è diretto da un regista non eccelso e non nuovo a sfide di magniloquenza filmica in divisa (di Edward Zwick ricordiamo infatti Glory, Vento di Passioni, Il coraggio della verità e Attacco al Potere). Epico, spettacolare, lungo (oltre 2 ore e trenta) come ormai si conviene per le mega-produzioni, con L’Ultimo Samurai l’America abbandona il suo amato western e guarda ad est. Contamina, saccheggia, mischia le carte e le pelli, ingaggia centinaia di comparse e tiene sempre alto il tasso di coinvolgimento (molto ben dirette e coreografate tutte le sequenze degli scontri). Ma s’impiastriccia di retorica zen e relega valori nobilissimi (lealtà, onore, coraggio, rispetto) in confini etici da bignami e in scenari da romanzo illustrato. Il Kurosawa asciutto e rigoroso de I sette samurai, dichiarato modello, sembra lontano. E Cruise, che si merita l’agognato Oscar, pur sudando, gridando, ferendosi e rischiando l’harakiri neanche si avvicina a Toshiro Mifune. Forse più al Costner di Balla coi Lupi, con più piroette. Dispiace poi che la metafora del “fucile che uccide più della spada” come supremazia dell’arma più vigliacca non trovi uno sbocco dignitoso. Ma almeno, in questi tempi bui di guerre inutili, tra tanto rumoreggiare riesce ancora a giungerci la necessità di valori veri in cui credere. E non è poco.
Francesco de Belvis
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