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Material Love

Regia di Celine Song vedi scheda film

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La recensione su Material Love

di lussemburgo
7 stelle

C’è ancora un triangolo romantico al centro del nuovo film di Celine Song, dopo Past Lives, una protagonista incerta che si trova a dover affrontare inaspettati dubbi e a cercare una vita e una via d’uscita dall’impasse. Benché la struttura rimanga simile, con un amore redivivo e un nuovo interesse presente, concreto e quotidiano, cambia però il contesto, tutto, ancora, riassunto nel titolo: se nel precedente film si parlava di vita passata o di passato ancora vivo, con tutte le ambiguità autorizzate dalla lingua inglese, in questa nuova opera l’aspetto materiale diventa preponderante (Materialists, in originale). Non siamo più di fronte alla riuscita artistica, alla volontà di un’espressione di completezza personale ma di un lavoro e delle sue conseguenze materiali, ovvero i soldi. Perché nel film tutto è ridotto alla sua espressione in termini di denaro: le relazioni amorose, dato che la protagonista concerta matrimoni; la vita in città, sempre più proibitiva; il futuro, che altro non è se non il calcolo delle prospettive economiche della combinazione matrimoniale.

In fondo, per l’ambientazione nuovaiorchese e l’impianto romantico di base nella ricerca del migliore partito, il film potrebbe rivendicare il sottotitolo di Maths and the City, data la ripetizione dell’espressione “do your maths” da parte di Dakota Johnson, l’eroina incerta, ovvero la necessità di fare (o far fare alle sue assistite) i calcoli per capire l’esatta fondatezza economica di un rapporto di coppia, ossia la sua durabilità e resistenza che giustifichino l’impegno e, soprattutto, l’investimento.

Sebbene Material Love abbia i toni e il soggetto di una rom-com, la regista sembra fare di tutto per sbarazzarsi della leggerezza della commedia e annullare nella matematica la chimica dei cuori, sabotando in toto il genere di riferimento, allineandolo così alla modernità di una vita senza slancio a cui la città sembra costringere. Eppure, sotterraneamente, il film sembra negare questo annichilimento del sentimento con una ironia di ritorno, non molto esibita in primo piano ma ben presente nell’impianto generale e nel secondo grado dei dialoghi, volutamente ripetitivi e ripetuti.

In una New York che è scenografia eternamente romantica, con rare fughe verso l’alto del lusso o il basso della campagna, tra ristoranti esclusivi e spuntini rubati, il film ritaglia segmenti narrativi solo per i suoi personaggi principali, seguendo per lo più le vicissitudini lavorative di Lucy con le clienti, più o meno soddisfatte, e i suoi rapporti personali, più o meno soddisfacenti, strattonata sentimentalmente dalla sorpresa di aver trovato un “unicorno” attraente e danaroso, un uomo perfetto (o perfezionato), messo a confronto col ritrovato interesse per un ex, aspirante attore e cameriere al momento, trovandosi così a poter scegliere tra un paradiso artificiale e la rassegnazione al disagio di un rapporto più intimo.

Il cinismo esibito delle situazioni, assecondato da una recitazione monocorde da parte della Johnson, incapace di reagire emotivamente, si condisce con dialoghi di mero computo percentuale del successo di una coppia, date le premesse e tenendo conto del contesto, moltiplicato per l’affinità per lo più da costruire, provocando così un sorriso quasi mai complice nello spettatore, al quale si nega così un’altra delle fondamenta della commedia romantica, e l’ironia acidula soppianta del tutto ogni aspirazione comica.

Ma la limpidezza del ritratto generazionale e contemporaneo di una città ostica e ostile, pur nella levigatezza degli interni e nella pacatezza dei propositi matrimoniali propugnati dalla protagonista, l’aura romantica, aleggiante ma nervosamente scacciata a più riprese come base di un necessario principio di realtà, rendono infine il film più crudamente realistico di una pura rom-com classica, di cui rappresenta una versione aggiornata e ‘digitale’, nella forzatura algoritmica delle combinazioni romantiche che sembra voler crudelmente propugnare. Girato ad altezza degli interpreti (una orizzontalità che contrasta con la verticalità vertiginosa della città), senza forzature registiche, con una macchina da presa quasi invisibile e una recitazione sussurrata e realistica molto concentrata sui dialoghi, Material Love guida dolcemente lo spettatore verso un finale leggermente sospeso tra romanticismo e pragmatismo, con riprese quasi documentaristiche in cui verità e finzione si mescolano e immedesimano, come negli arguti e falsati calcoli della protagonista, infine rassegnata a dimenticarseli.

 

Eppure, nella sua apparente vanità, il film colpisce duramente nel dipingere un capitalismo brutale e manovratore, incarnato nell’acciaio e nel cemento cittadino o nella morbidezza ricreativa di un lusso esclusivo, nella riduzione a mero investimento economico di un rapporto affettivo, alla monetizzazione di ogni aspetto della vita, dall’amore al parcheggio. Tanto che la crisi, personale e lavorativa di una matchmaker di successo diventa, senza troppe esibizioni retoriche, la descrizione di un paradosso sociale, di un’iniquità normalizzata a regola.

La stessa negazione apparente della sua natura di commedia romantica, di cui sembra volere annullare la ‘zuccherosità’ (pur annoverando numerose scene di matrimonio), trasforma il classico gioco degli equivoci in dibattito morale, non più melodramma incantato di appuntamenti mancati e rimandati ma scelta di campo tra sincerità e illusione, tra verità e forzatura, tra desiderio e quotidianità. Così l’anima divisa in due della protagonista e dello stesso film si riverberano, in quanto suo riflesso, sull’opprimente mondo circostante che tutto deve incasellare per poter funzionare. Tutto è un contratto, ogni cosa un business, il rendiconto economico un sintomo di successo: quindi tutto ha un prezzo e può essere comprato, come conferma la recente amministrazione americana. E nel film si parla spesso - quasi troppo, per una commedia apparent- di morte, di compagnia in vecchiaia, di sostegno fisico ed economico ben prima che amorevole e sereno perché la vita ha un costo e un peso, che va distribuito come un investimento.

Pertanto ogni sotterfugio è lecito nell’accaparrasi un capitale di partenza, ogni correzione (anche fisica) è consentita per conquistarsi il miglior partito, rinnegando ogni sincerità. E il film, in fondo, è anche la capitolazione alla fumettizzazione della vita, con tutti suoi i protagonisti reduci dal mondo Marvel, tra le trame invisibili di Madame Web, la gigioneria dell’iconografia statunitense di Capitan America, la morbidezza elegante e rassicurante dell’elastico Reed Richards dei più recenti Fantastici 4, e a cui l’unica risposta è un’autoironia consapevole perché è questo il gioco a cui partecipiamo.

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