Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Nell’era dell’I.A. la minaccia globale sembra provenire dagli anni ‘60 del XX secolo, ricordandoci che la tematica è più attuale che mai. Un film che ci fa toccare con mano la macchina operativa degli Stati Uniti con un realismo che forse non ha precedenti. Un film che purtroppo si fa rimpiangere per ciò che non è stato e avrebbe potuto essere.
Kathryn Bigelow produce e dirige questo film originale Netflix incorporando pregi e difetti dei titoli confezionati e infiocchettati con la “N” sopra.
I pregi sono per lo più a livello tecnico, il sonoro e la fotografia in primis, fotografia peraltro curata dal collaboratore fidato della regista Barry Ackroyd, oltre ad un montaggio superbo curato da Kirk Baxter (collaboratore storico di David Fincher) che si è barcamenato egregiamente con la struttura alquanto articolata della pellicola.
Di fatti la sceneggiatura concepita da Noah Oppenheim (curioso si parli di bombe!) punta a riavvolgere il nastro ogni qual volta la storia giunge al suo epilogo per entrare nei meandri delle diverse ali operative del governo statunitense, strutturate, distese e volte a proteggere la nazione da attacchi militari.
Il meccanismo intrapreso funziona sì, ma a metà; nel senso che per quanto sia avvincente riguardare gli stessi eventi da altre prospettive e attraverso occhi diversi, ciò deve assumere uno scopo preciso, ossia quello di aggiungere ed elevare e non ripetere e banalizzare.
A conti fatti la scelta di strutturare in questa maniera il film, è sembrata più un esercizio di stile che una vera necessità, costringendo lo spettatore a riassorbirsi per ben tre volte gli stessi eventi.
“A house of dynamite” ha il grande merito di risvegliare l’interesse collettivo attraverso e nei confronti di un tema che negli anni è divenuto obsoleto e che sottoposto all’attenzione ai nostri giorni assume un forte sapore “retrò”: la minaccia di un attacco nucleare.
Gli Stati Uniti si svegliano un normalissimo mattino a soli 20 minuti dal vedere mandare in frantumi non solo la città di Chicago, ma le proprie sicurezze, e le proprie libertà, il proprio avvenire.
Il tutto per via di un ordigno nucleare montato su di un missile balistico intercontinentale di provenienza ignota, sconosciuta in quanto la prima soglia di protezione che avrebbe dovuto identificarne il momento e il luogo del lancio ha fatto cilecca. E sarà un giorno in cui tutto farà cilecca. . .nella casa imbottita di dinamite, surreale.
Il film dunque riavvolge il nastro in ognuno dei suoi tre capitoli:
Il capitolo “L’inclinazione si appiattisce” osserva gli eventi sotto la gestione dell’ala tecnica/operativa del governo, entrando dentro la Situation Room della Casa Bianca e le dinamiche dei suoi elementi di punta, come il capitano Olivia Walker (la bravissima Rebecca Ferguson, ormai più che avvezza a ruoli del genere) catapultata in una tremenda realtà da dover gestire e alla quale ne viene affidata la piena supervisione.
Il secondo atto dal titolo “Colpire un proiettile con un proiettile” mette in luce gli stessi concitati momenti gestiti dall’ala militare suddivisa tra l’unità operativa a Fort Greely in Alaska sotto il comando del generale Daniel Gonzalez, la base aerea di Offut nel Nebraska dove scalpita il generale Antony Brady, e un vice consigliere a passeggio per Washington, tale Jake Baerington abile analista che sembra uscito dai romanzi di Tom Clancy (l’affinità del personaggio interpretato da Gabriel Basso con “Jack Ryan” è fin troppa per sorvolare).
L’ultimo “rewind” è in effetti la title track dell’album: “Una casa piena di dinamite” e offre i risvolti della drammatica situazione sull’ala politica del potere, quella definitiva, decisionale, con l’immancabile presidente degli States interpretato da Idris Elba nelle vesti di un Barack Obama meno “cool” e molto più in carne.
A livello di regia il film propone in pieno il repertorio della sua conclamata autrice: pochi fronzoli, barra dritta, ritmo frenetico (quanto basta) e livello di tensione sostenuto e mai esagerato, mai urlato. La Bigelow con la sua macchina da presa è una delle protagoniste, è lì presente e la si percepisce. La regista ha il merito di saper dirigere lo sguardo dello spettatore con la stessa efficacia e dinamicità con cui lo fa con la sua "cinepresa".
La sceneggiatura ha il merito di caratterizzare i personaggi quanto basta per sensibilizzare lo spettatore sul tema dell’elemento umano, l’essere umano che sta dietro una macchina operativa di tale portata: vi sono mamme e padri, giovani con le loro leggerezze e insicurezze, vecchi con le loro preclusioni mentali e altri con senso di inadeguatezza, vi sono decisionisti e attendisti, uomini e donne efficienti e preparati al cospetto di superiori approssimativi e improvvisati; comunque, in tutti e per tutti, dubbi e certezze assumono la stessa forma quando la posta in gioco è così alta con il risultato di paralizzare l’intera macchina fatta di uomini e le loro scelte.
La medaglia porta con sé anche il suo rovescio e i suoi demeriti: la descrizione dell’improvvisazione, dell’impreparazione e dell’inadeguatezza di apparati e uomini ad ogni livello di comando è sembrata a dir poco eccessiva; si possono citare i giovani militari in servizio a Fort Greely dalla cui base vengono lanciati i missili intercettori terrestri (GBI) i quali sono delineati alla stregua di teenager con atteggiamenti adolescenziali e alle prese con dinamiche da college; il segretario del governo Reid Baker (interpretato da Jared Harris) totalmente in balia degli eventi, anche familiari, che dalla sede del Pentagono è totalmente fuori controllo nonostante ancora non si sia verificata e compiuta la terribile minaccia (viene da chiedersi cosa avrebbe fatto a seguito dello scoppio dell’ordigno nucleare); e infine la figura del presidente degli Stati Uniti d’America, presentata in maniera goffa, a tratti sciatta, di sicuro inadeguata al comando e colpevolmente (tanto da destare incredulità) totalmente impreparata a svolgere il suo compito tanto da dover essere istruito al momento dal giovane capitano di vascello che si trova dinanzi il proprio presidente stranito e totalmente all’oscuro di quell’importantissimo “menù” con il quale a distanza può decidere come “cucinare” il mondo.
Qualche personaggio stereotipato sparso quà e là (l’analista alla Jack Ryan è stato sinceramente troppo) e altri dallo scopo e il significato incomprensibili (come quello di una certa Cathy Rogers ma non solo, talmente marginali da diventare insignificanti) fanno il resto. Questo fa pensare o a una sceneggiatura approssimata (improbabile) o a un consistente taglio dello script.
Lo stile Netflix impacchetta il tutto con uno stile fin troppo da “divano” dato l’argomento; quando c’era da elevare, dare corpo e accelerare, prevale l’appiattimento e il desiderio di assecondare il consumatore finale.
Nel complesso il film ne esce promosso con la sufficienza, un film con le mani legate che avrebbe potuto e dovuto fare di più.
Un film che implode e non esplode, in tutti i sensi; il dolore e la tensione vengono strozzati e non urlati, ingoiati e non sfogati, regalandoci un bel finale, quello sì.
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