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Springsteen - Liberami dal nulla

Regia di Scott Cooper vedi scheda film

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La recensione su Springsteen - Liberami dal nulla

di Strangeronatrain
7 stelle

Nel film “Liberami dal nulla”, Scott Cooper racconta l’uomo dietro il mito: un artista ferito che ritrova sé stesso registrando in solitudine un album destinato a cambiare la musica americana.

Non è facile fare un film su una rockstar, tanto meno su una leggenda vivente, con una fanbase dai 15 ai 95 anni. Pochi ci sono riusciti senza scadere nell’agiografia o nei cliché. Diciamo subito cosa Liberami dal nulla (Deliver Me from Nowhere), tratto dal libro di Warren Zanes, non è: non è un biopic ad alto budget (pochissime le scene sul palco), non è un “film juke-box” alla Bohemian Rapsody o A complete unknown (le hit si contano sulle dita di una mano) e nemmeno un trattato sul prezzo della celebrità. E’ un piccolo film su un grande personaggio che, trovatosi a un bivio esistenziale, tenta di guarire sé stesso attraverso la musica. Scott Cooper, che aveva già esplorato il genere musicale con Crazy Heart, sceglie qui la forma della sineddoche, restringendo lo sguardo su una parentesi personale durante la genesi di Nebraska, tra il 1981 e il 1982, a cavallo tra i successi di The River e Born in the USA. Springsteen, stremato dall’ultimo tour, torna nel New Jersey e si trova solo, in lotta con i fantasmi del padre alcolizzato e abusivo (da cui ha sempre desiderato essere amato, prima che dai suoi fan adoranti), immobilizzato dalla paura del successo e di non essere più come le persone con cui era cresciuto, in preda a una depressione che a quei tempi non aveva ancora un nome.

 

Nebraska, nato quasi per caso, segna una svolta nella vita del suo autore, oltre che nella storia della musica. Considerato il suo lavoro più autentico ed intimo, è un disco acustico, dal sapore folk e popolato da anime perdute: operai, fuorilegge, emarginati d’America. Springsteen volle a tutti i costi preservarne la purezza e autenticità, opponendosi ai tentativi della casa discografica di renderlo più commerciale, e alla fine l’album venne pubblicato “in purezza”, così com’era: un demo lo-fi, minimale e senza ritocchi. Tra le condizioni imposte vi era il divieto di marketing e tour. La forza dei versi doveva bastare per far arrivare le storie al cuore degli ascoltatori. Da quel gesto nacque una piccola rivoluzione per la musica: dimostrò che la verità, anche sussurrata, può bastare a farsi ascoltare.

 

Pur senza virtuosismi registici e al netto dei flashback in bianco e nero sull’infanzia invero un po’ deboli, il film – approvato dallo stesso Springsteen – ne coglie gli aspetti più intimi e umani: un uomo rozzo e vulnerabile, semplice e profondamente americano, animato da fiera onestà, dal sogno di riscatto e dal rispetto per le proprie umili origini. Jeremy Allen White, già noto per the Bear, canta di persona alcune canzoni del Boss, tra cui una struggente versione di Born in the USA e, pur distante nelle fattezze fisiche (assomiglia più ad un giovane Al Pacino), riesce in qualche modo, anche nelle movenze, a incarnarne lo spirito. Ottimi anche Jeremy Strong, nei panni di un misurato Jon Landau, storico manager e co-produttore, e il solito Stephen Graham, padre monolitico e autoritario. Ma la vera rivelazione è Odessa Young, che interpreta la fidanzata fittizia Faye Romano, che ricorda una giovane Debbie Harry e spinge il protagonista a guardarsi dentro. La loro scena del primo appuntamento racchiude l’anima del film e, forse, dell’America stessa. Quando lei chiede “che si fa, hai prenotato qualcosa?”, e lui risponde “Facciamo un giro in macchina”, tutto è detto: la libertà come unico progetto, la strada come orizzonte morale, l’amore come possibilità di fuga. È in quel momento che l’uomo e l’artista coincidono: un figlio del New Jersey che, per ritrovare la propria voce, deve tornare a perdersi nei propri paesaggi. Struggente il congedo finale tra i due, in cui lui ammette laconicamente di non saper amare quanto lei.

 

C’è infine spazio anche per il cinema dentro il cinema. Tra le fonti dichiarate di ispirazione di Nebraska, oltre ai racconti di Flannery O’ Connor, figura “La rabbia giovane” di Terrence Malick (in originale “Badlands”, titolo che ispirò a sua volta un altro album), film splendido e rivoluzionario del 1973, dal tono favolistico e sognante, che si ispira alla vicenda del serial killer Charlie Starkweather. Un’opera che mescola poesia e violenza nell’America marginale: lo stesso paesaggio morale in cui Springsteen ambientò le sue canzoni. E forse è proprio qui il cuore del film di Cooper: non nel ritratto di una star, ma nell’ascolto di un uomo che, per ritrovare la propria voce, sceglie il silenzio. Un film che ricorda come la grandezza, a volte, possa nascere solo da un registratore economico e da un cuore rotto che decide di non fare rumore.

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