Regia di Vivian Qu vedi scheda film
Quando Fang Di tenta di cacciare via la cugina rediviva Tian Tian, venuta a chiederle aiuto sul set di un wuxiapan in cui la prima fa la stunt della diva di turno, Fang Di accusa la cugina di essere una sanguisuga, e che a continuare a chiederle soldi lei e tutta la sua famiglia la stanno dissanguando annullando i suoi sforzi in un lavoro mal pagato e poco tutelato. Nella scena si evince che Fang Di sta esagerando, e che Tian Tian sta subendo una violenza che non merita. La regista cinese Vivian Qu stringe sui volti delle due attrici provando a entrare in risonanza con le emozioni dei loro personaggi, prolungando idealmente la tensione fra di loro con movimenti di camera febbrili. Fa così più o meno in tutto Girls on Wire, dramma familiare che in un sostanziale realismo senza respiro ha la sua prima strategia stilistica.
La scena di cui sopra è particolarmente indicativa di una profonda contraddizione che nel film inquina tutte le pulsioni più emotive ed evocative: Vivian Qu cerca sempre il volto, gli occhi, l’espressione, si dimena per tenerli al centro, sfocando uno sfondo irrilevante, vettorializzando a forza ogni momento. Un anelito verso il primo piano che ben si addice al melodramma, ma che dà una direzione fin troppo netta a uno sguardo che allo stesso tempo vorrebbe tenersi naturalistico, lucido, frenetico perché sempre nell’azione, anche quando quest’azione è un ricordo. Una camera invadente, due piedi troppi grossi per una scarpa sola. Questa aderenza sarebbe perfetta per un melodramma, lo è un po’ meno per un film “sociale” non solo nelle intenzioni ma anche nel suo contenuto esibito, un bugiardino sulle differenze di genere fra uomo e donna (in famiglia, sul lavoro, nelle relazioni), sulla maternità, sulla sorellanza (che anche se è cuginanza poco cambia), sulla necessità di empatia, sulla povertà di una Cina sempre in debito, sempre in pericolo. Il primo cortocircuito fra melodramma e realismo - equilibrio difficile, fragile, dato fin troppo spesso per scontato - è quello di uno “sfruttamento drammatico”, che tradisce il protagonismo della cinepresa e dello sguardo registico. La regia “sfrutta” la sua storia, “sfrutta” le sue tragedie, “sfrutta” i traumi dei suoi personaggi, ed estrae solo pietismo distaccato, caricatura melensa, sovraccarico di stucchevolezza. È il ricorrente difetto di un realismo magico che qui diventa un capriccio aprioristico, da cui far derivare noiosamente tutto. Nulla a che vedere con pedinamenti zavattiniani et similia: se Vivian Qu deve pedinare un personaggio lo pedina di fianco per rubare le espressioni del suo volto, e mai di spalle nel tentativo interrogativo di inseguirlo evocando il dubbio su dove andrà e cosa farà.
Nella scena di cui sopra Fang Di fa del male a Tian Tian ma in buona fede, e Tian Tian non sta affatto succhiando il sangue a Fang Di. La camera e lo sguardo di Vivian Qu invece stanno facendo entrambe le cose. Le vere sanguisughe sono loro.
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