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28 anni dopo

Regia di Danny Boyle vedi scheda film

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La recensione su 28 anni dopo

di mck
7 stelle

Memento Amori contro “There's No Discharge in the War!” (e la Rivincita di Azincourt), ovvero: le Meraviglie della Placenta (madre per poco e per procura).

 

 

Quattr’e quattr’horror (e dintorni) del 2025:
• “Death of a Unicorn” (U.S.A.), commedia dark fantasy-horror scritta e diretta da Alex Scharfman: **½ - **¾
• “Bring Her Back” (AUS), horror psicologico-soprannaturale scritto da Danny Philippou & Bill Hinzman e diretto da Danny & Michael Philippou: **¾ - ***
• “28 Years Later” (U.K.), horror post-apocalittico di formazione scritto da Alex Garland e diretto da Danny Boyle: ***½ - ***¾
• “Weapons” (U.S.A.), horror-mistery scritto e diretto da Zach Cregger: **¾ - *** 

 


Frittole, Northumberland (quasi Scozia), 2030 inoltrato.
Nella linea spazio-temporale in cui una specie del genere Lyssavirus (mononegaviralidi: RNA a singolo filamento negativo) ha effettuato la zoonosi spilloverando da Pan troglodytes ad Homo sapiens (con l’indispensabile aiuto colposo più o meno consapevole di varie enclavi sociali di per loro non per forza pestilenziali, ma in buona fede mal applicata, di Homo sapiens stesso, s’intende), esentando così i regnounitici (pardon: gl’inglesi) dal voto favorevole alla Brexit e facendo un bel favore all’Europa-Mondo, il Sycamor Gap, l’albero...

 

 

...di Robin Hood (quello di Reynolds/Costner, per intenderci), è ancora in piedi svettando lungo un avvallamento della Muraglia di Adriano, e così le buone notizia salgono a due. Il resto è apocalisse locale in corso. (Ah, probabilmente Daniel Graham e Adam Carruthers sarebbero crepati da bambini e non sarebbero mai diventati i due idioti vivi e vegeti che, nella nostra Linea S-T, invece sono.)

 

 

28 Years Later”, sceneggiato da Alex Garland, prodotto da Andrew Macdonald, fotografato da Anthony Dod Mantle e diretto da Danny Boyle, vale a dire gli artefici dell’originale del franchise di... 23 anni prima, “28 Days Later” (2002), è al contempo il completamento di un’imprevista trilogia e, seguendo comunque le tracce del semi-apocrifo, ma non eludibile e financo ben riuscito “28 Weeks Later” (Juan Carlos Fresnadillo, 2007), il previsto avvio di un’altra, che certamente sarà almeno una duologia – “28YL: the Bone Temple”, scritto sempre da Garland, è stato infatti girato, dalla “tuttofare” Nia DaCosta (“Little Woods”, “Candyman”, “The Marvels”, “Hedda”), a ruota di questo, e segnerà pure il ritorno del personaggio, protagonista del primo film, interpretato da Cillian Murphy – e poi si vedrà, perché se tutto andrà come deve andare, allora “28YL” sarà il perno centrale di una pentalogia.

 


Il pressoché esordiente assoluto Alfie Williams regge bene sulle spalle il peso del ruolo ed è ben coadiuvato da un Aaron Taylor-Johnson (“Kick-Ass”, “Tenet”, “Nosferatu”) che fa il suo, da una Jodie Comer (“Good Cop”, “Killing Eve”, “the Last Duel”, “Talking Heads: Her Big Chance”, “Help”, “Prima Facie”, “the BikeRiders”, “the End We Start From” e la - speriamo! - prossima “Big Swiss”, più "the Death of Robin Hood" e "the Last Disturbance of Madeline Hynde") meravigliosa come sempre anche in quest’occasione («Okay, “Dad”!», e poi si trasforma in mamma grizzly) e da un ottimo Ralph Fiennes lontano dal recente manierismo di “Conclave” e “the Return”.

 


A rischio di essere pleonastici (ma in questo caso chi se ne fotte!), sono da evidenziare, ricordare, rimarcare, segnalare:
• la resa nell’uso degli iPhone disposti a semicerchio, con la possibilità di scegliere di volta in volta il giusto frame più significativo e saltare da uno all’altro col montaggio (curato dal boylesco di lungo corso, più “the Dig”, Jon Harris) lungo l’arco a tutto sesto disposto a 180°, ad esempio durante la scaramuccia con gli slow-lows;
• il ripescaggio, la ripulitura, il campionamento, la musicalizzazione e l’utilizzo tutto (inframezzandolo e interlacciandolo con spezzoni dall’Enrico V del 1944 di Laurence Olivier) della registrazione audio della lettura - ben poco “recitata” - che Taylor Holmes fece nel 1915 della poesia “Boots” del 1903 di Rudyard Kipling ad opera degli Young Fathers, autori di tutta la colonna sonora originale;
• la scena del parto, punto.

 

 

Mentre qualche disomogeneità è riscontrabile:
• a metà film, quando di punto in bianco, con una soluzione di continuità un po’ impacciata/slegata, ne sembra cominciare un altro: ma sono solo gli svedesi;
• nella scelta terminale di lei, così/troppo repentina (poi, bisognerebbe indossare i suoi panni, eh);
• nell’epilogo strafattoide (ma “28YL: the Bone Temple” sarà “tutto” così?!) à la “Power Rangers” traceur/parkourist (il Takashi Miike di “Yattaman” e “Ninja Kids” e il Quentin Dupieux di “Fumer fait Tousser”) che, sì, chiude con il prologo waco-teletubbiesco un uroborico cerchio all’apparenza fine a sé stesso nell’economia del singolo film, ma che invece è prodromo ai due episodi successivi, uno come detto già pronto e l’altro previsto, ma però che cazzo!

 


Da notare che l’elemento non puramente stilistico, ma financo contenutistico (sotto la superficie della forma v’è sostanza) del film, ovvero le monumentali installazioni artistiche di teschi e femori...

 

 

...create dal dottor Kelson, erano già presenti, in nuce, ma costituite da mobilia invece che da ossa umane e realizzate però dalla controparte zombie-rabbiesca, nel - per forza di cose a sua volta derivativo, ma - più che buon Les Affamés” (2017) di Robin Aubert.

 


Memento Amori* contro “There's No Discharge in the War!” (e la Rivincita di Azincourt), ovvero: le Meraviglie della Placenta (madre per poco e per procura).

*D’accordo: o il dottor Kelson (e quindi Garland) non conosce una mezza acca di latino, oppure… è che sta parlando con un ragazzino di 12 anni durante un’apocalisse zombi e non vuole sovraccaricarlo di verbi attivi e passivi e di gerundi declinati all’infinito presente, tra ablativi, accusativi, dativi, genitivi e nominativi, Dio Khan.

***½/¾     

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