Regia di Francesca Romana Massaro, Francesco Antonio Mondini vedi scheda film
Mettiamo da parte il personaggio: basta vedere come era ridotto il suo naso per capire quale rapporto avesse Franco Califano con le droghe. Lasciamo perdere anche la sua caratura artistica: sentirlo chiamare ripetutamente "Maestro" o vederlo indicato come colui che ha scritto "le più belle canzoni mai scritte in Italia" (parola di Francesco Rutelli) fa rabbrividire e chiede vendetta. Ma il film, il film, dov'è? Nel costruirlo, i due carneadi Massaro e Mondini si limitano al minimo sindacale, assemblando l'immancabile found footage e i filmati in super8 o altro repertorio con le interviste, a cui aggiungono una piccola parte fiction, affidata a Lele Vannoli. Siamo al grado zero della fantasia, con la disposizione a costruire il santino di un autore le cui canzoni rimangono costantemente fuori scena, salvo poi essere recuperate sui titoli di coda, in forma antologica. Nel loro almanaccare alla ricerca affannosa di elogi sperticati, i due registi non riescono a trovare di meglio che una ex subrette emersa dalla factory di Gianni Boncompagni (Gerini), una ridda di rapper indistinguibili (hanno tutti gli occhiali da sole, i baffi, fumano, bevono superalcolici, parlano un italiano irricevibile e si riferiscono a Califano come al loro nume tutelare), uno scappato di casa come Federico Zampaglione e qualche amico di vecchia data. Ci sarebbe da domandarsi perché nessuno dei grandi nomi della canzone italiana si sia prestato a offrire una propria testimonianza sulla grandezza del cantante romano, ma tanto ci pensa quella parvenu di Barbara Palombelli a sproloquiare in loro vece. Nel frattempo, Radio Radicale fa da palcoscenico sonnolento: più che un omaggio, un interminabile requiem in FM. A fare da collante, un Vannoli notturno che, tra un pieno di malinconia e un'accensione di fari, pare il Moretti di Caro diario però ridotto in saldo. E mentre gli altri celebrano la "solitudine" del Califfo, il film riesce nel miracolo di infliggerla direttamente allo spettatore, abbandonato tra microfoni impolverati e bicchieri mezzi vuoti, come se il nulla fosse un genere cinematografico. Una cosa buona però il film ce l'ha: quella de nun trattene' lo spettatore oltre i 67 minuti, che a me so' sembrati er doppio.
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