Regia di Athina Rachel Tsangari vedi scheda film
In un villaggio medievale scozzese arrivano tre nuovi abitanti e immediatamente i locali li additano come menagrami, basandosi sulla superstizione.
Lasciando da parte cortometraggi e serie televisive/web, questo è il quarto lavoro di Athina Rachel Tsangari espressamente girato per la sala cinematografica all’interno di una carriera oramai trentennale, iniziata alla metà degli anni Novanta; Harvest è un film senza ombra di dubbio difficile, arzigogolato e a tratti perfino cervellotico, nonostante l’apparente semplicità di lettura e l’andamento piuttosto blando della narrazione, non lontano dall’essere ipnotico. Due ore e un quarto di visione durante le quali succede poco o nulla, i dialoghi latitano e le lunghe sequenze – sempre in spazi aperti e spesso con numerosi personaggi ritratti insieme – assumono un senso soltanto con il procedere della storia; di memorabile c’è purtroppo solamente la noia, ma se si vuole trovare qualcosa di buono a ogni costo non va sottovalutata la resa sulla scena del protagonista, l’attore/cantautore Caleb Landry Jones. Per i seguaci della regista greca l’attesa di quasi un decennio del precedente Chevalier (2015), gravida di aspettative, non è stata ripagata; il suo cinema destrutturato, simbolista, provocatorio (vedasi soprattutto Attenberg, uscito nel 2010) non passa da queste parti. Presumibilmente il motivo è che Harvest mette in scena un romanzo di Jim Crace, seppure la Tsangari abbia firmato la sceneggiatura insieme a Joslyn Barnes; tra gli altri interpreti principali nel cast si possono infine segnalare Harry Melling, Stephen McMillan, Neil Leiper, Mitchell Robertson e Thalissa Teixeira. Coproduzione internazionale battente quintupla bandiera: greca, statunitense, francese, tedesca e britannica. 3,5/10.
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